“Sapete quanti omicidi ci sono stati nel 2017 in Italia? 348 omicidi volontari. Siamo il paese che ne ha meno in Europa, calcolando ogni mille abitanti. Tra l'altro, oltre il 50 per cento avvengono in ambito familiare: per cui è più pericoloso stare in casa che uscire”. Con l'ironia che da sempre lo contraddistingue, Piercamillo Davigo ha raccontato ieri sera, di fronte alla folta folla della Tour de Villa di Gressan, il contenuto del suo ultimo libro, “Giustizialisti”: una sorta di ricognizione sullo stato dell'arte del sistema della giustizia italiano.
Dalle grandi difficoltà di dare certezza alla pena, al paradosso delle carceri considerate piene “perché il criterio adottato per calcolare lo spazio per detenuti è lo stesso delle normali abitazioni”, passando e insistendo sulla percezione, a suo dire falsata, dell'Italia come paese insicuro: “Questo martellare sulla sicurezza serve a coprire le vere magagne del paese – sostiene – la criminalità organizzata e la devianza della classe dirigente”.
Dal maggio 2016 Davigo è presidente di sezione della Corte suprema di Cassazione, ma è conosciuto soprattutto per essere stato, da pubblico ministero, uno dei componenti dello storico “pool” milanese di Mani Pulite, assieme tra gli altri a Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro. In quel contesto, dopo l'arresto dell'isolata “mela marcia” Mario Chiesa, la squadra di pm riuscì a scoprire “tutto il cestino” che formava il sistema di Tangentopoli.
“Io non ho nessuna simpatia per gli scippatori, devono stare in galera – ha detto Davigo, insistendo sul tema della percezione della sicurezza – ma quando a Milano c'era il processo per l'agiotaggio di Parmalat c'erano 45 mila parti civili”. “Quanto ci impiega uno scippatore a fare 45 mila vittime? – si chiede poi il magistrato – e una signora quanto può avere nella borsetta? Quelle 45 mila persone avevano in buoni Parmalat i risparmi di una vita”.
Oltre a questo però, Davigo ha spiegato le difficoltà quasi kafkiane di gestire un processo con 45 mila parti civili, con la necessità di chiamarle per appello ad ogni udienza, aggirata poi dai magistrati con un appello per avvocati, comunque lunghissimo: “Quando l'ex ad di Parmalat è stato condannato ha detto che non se l'aspettava: ha ragione lui”, chiosa Davigo.
“Le leggi sono scritte a posta per farla far franca alla classe dirigente”, sostiene, spiegando come con le varie aggravanti previste nei due casi, sia decisamente più facile andare in carcere per furto, reato da criminalità comune che per appropriazione indebita, pratica che nei fatti è un furto, ma che è tipica dei colletti bianchi.
È sulla classe dirigente che Davigo insiste, anche su richiesta delle tante domande dal pubblico, ricordando che “la prescrizione non è un'assoluzione e non c'è onore nel prenderla”. “Se io da magistrato prendo la prescrizione in un processo – spiega – il giorno dopo ho un procedimento disciplinare”
“C'è una mancanza di autovalutazione della classe politica – afferma perciò – si dice di aspettare le sentenze, ma se io invito a cena il vicino di casa e questo se ne va con l'argenteria non è che devo aspettare il terzo grado di giudizio per decidere di non invitarlo più a cena, poi al massimo il terzo grado deciderà se va in carcere o no”. Da qui quindi, Davigo ha insistito sulla necessità di una valutazione etica dei comportamenti, al di là del giudizio della magistratura: “Una cosa può non essere reato e può essere una porcheria lo stesso”.
Infine, Davigo ha trattato anche l'opportunità di impiegare “agenti provocatori”, che però chiama più correttamente “operazioni sotto copertura”, per smascherare la corruzione in Italia: “Questo metodo è previsto per droga, armi, mafia e pedopornografia, ma quando si parla di corruzione tutti dicono che l'agente provocatore non si può impiegare, nonostante l'Italia abbia firmato una convenzione che le impone di farlo”.