“Oggi celebriamo l’ottantesimo anniversario della Liberazione, ma soprattutto rinnoviamo un impegno: quello di non smettere mai di difendere la democrazia, la libertà, la giustizia sociale e l’eguaglianza. Il 25 aprile non è una data da commemorare soltanto: è un messaggio da incarnare ogni giorno”. Lo ha dichiarato l’onoerevole Franco Manes, deputato valdostano, a margine delle celebrazioni ufficiali per la Festa della Liberazione.
Nel suo intervento di ieri alla Camera dei Deputati, durante la commemorazione solenne, Manes ha richiamato l’importanza di custodire e trasmettere l’eredità morale della Resistenza: “Celebrare il 25 aprile non è solo un dovere di memoria. È un atto politico. Perché ogni generazione è chiamata a difendere e a reinterpretare la democrazia, mai a considerarla acquisita”, ha affermato. “La Resistenza non fu un fatto astratto: fu una scelta concreta, quotidiana, fatta da uomini e donne che dissero ‘no’ all’oppressione e ‘sì’ alla libertà”, ha aggiunto.
Manes ha sottolineato con forza l’attualità di quei valori, in un contesto europeo e globale attraversato da tensioni e instabilità: “Viviamo un tempo inquieto. La violenza e la guerra ci ricordano quanto siano fragili la pace e la convivenza civile. Anche nel nostro Paese, la democrazia affronta nuove insidie: l’astensionismo, la sfiducia, il linguaggio dell’odio. Non possiamo restare indifferenti”.
Richiamando l’importanza della memoria come fondamento della Costituzione repubblicana, Manes ha concluso con un appello alla responsabilità collettiva: “Non possiamo permettere che il 25 aprile venga svuotato del suo significato, piegato alle convenienze del momento. È il giorno in cui l’Italia intera ritrova se stessa. O dovrebbe farlo. È nostro compito restituirgli forza, senso e unità”.
Nel giorno in cui l’Italia celebra la libertà riconquistata, il deputato valdostano invita infine a una riflessione personale e collettiva: “Dobbiamo chiederci: siamo ancora degni di quella eredità? Stiamo onorando davvero il sacrificio di chi scelse la lotta contro l’oppressione? Una domanda a cui tutti, oggi, dobbiamo rispondere”.
Nuti: “Serve una rivoluzione silenziosa, fatta di coscienza critica, di educazione, di studio, di mitezza e serietà e di una spiritualità profonda”
Ripercorre la storia, il Sindaco di Aosta, Gianni Nuti, nel suo discorso durante le celebrazioni, in Piazza Chanoux. “Siamo nuovamente qui, a recuperare, nel presente, fatti remoti così pregnanti da restare appiccicati alle mura di questa piazza, dove ottant’anni fa ci si abbracciava, si marciava finalmente in pace senza passo dell’oca, ci si affacciava a un domani senza incombenti minacce di morte. È proprio nei luoghi di confine come il nostro in cui l’uomo mostra la sua ambivalente mescolanza di visioni e di desideri: quell’epilogo corale del 28 aprile 1945 non fu che il precipitato di una situazione alquanto complessa. La liberazione tardò, in Valle d’Aosta, perché tra le forze in campo c’erano annessionisti, federalisti-autonomisti, occupanti tedeschi, alpini fedeli alla Repubblica Sociale Italiana e alpini ribelli; l’astuzia del Maggiore Augusto Adam lasciò insoddisfatti gli appetiti del Generale De Gaulle ch’erano noti da tempo, ma anche la neve aiutò a frenare le truppe francesi. E poi, da questo groviglio di forze umane e naturali, da posizioni differenti in cui molti destini sembravano possibili, a un certo punto si dipanò una strada maestra, degna della più generosa primavera: una terra libera, autonoma e ancorata alla sua storia prevalente”.
“In quel momento – racconta ancora Nuti – i fascisti irriducibili gettarono la spugna, gli incerti e gli ignavi si allinearono, i vincitori aprirono finestre e porte per far entrare la luce ovunque. In quel momento, c’eravamo già tutti noi, eravamo tutti bambini liberi e gioiosi, impegnati a gettare, insieme, una pietra dolce nel lago della speranza affinché formasse cerchi concentrici vibranti di energia creativa”.
Ciò che è venuto dopo ci ha portati a oggi. “Hanno riverberato per decenni quei cerchi nella storia d’Italia, spargendo energie impensabili per trasformare macerie in case, lotte fratricide in squadre cooperanti. Abbiamo a poco a poco abbattuto frontiere, allargato i mercati che sono, da sempre, pullulanti d’invenzioni e di fantasie quanto di richiami di sirene, d’inganni truffaldini… ma pur sempre ricchi di vita; ce ne siamo andati, valigie di cartone in mano piene di raggi di sole, a disseminare nel mondo i nostri modi colorati di pensare e di agire… E la nostra patria è diventata il mondo“.
E poi? “Sembrava una crescita senza fine, finché non siamo stati così bene da dimenticarci dei dolori patiti, delle separazioni, dei lutti che avevamo condensato in quella pietra dolce per gettarla in un lago di speranza. E così, i cerchi concentrici, sempre più distanti, si sono sciolti nelle acque ferme dell’indifferenza. Assistiamo, ogni giorno, a volgari spettacoli di prepotenza e machismo di Stato, vediamo erigere muri commerciali e di mattoni all’unico scopo di arricchire i ricchi, sentiamo dare degli idioti e degli stupidi ai migliori scienziati del mondo, vediamo sfilare davanti ai nostri occhi persone inermi – “gli scarti” direbbe Francesco – incatenate come schiavi, assistiamo alla retorica del riarmo per la pace quando sappiamo benissimo che armi chiamano armi e ogni produzione è destinata al consumo e che consumare armi significa distruggere intere città e mutilare bambini e far morire di dolore i vecchi come succede a Gaza da mesi e in Ucraina da anni insieme ad altri 54 zone di guerra”.
E noi? “Galleggiamo distesi sulle acque ferme, senza energia, abbagliati dal sole delle menzogne, delle mistificazioni e delle chimere che saturano l’etere; ogni tanto, sputiamo qualche cattiveria sui social, così, per avvelenare l’aria, goderne un po’ e preparare il terreno al momento in cui saranno i corpi e non le parole a usare violenza. Aveva ragione il compianto nostro Papa Francesco: abbiamo fatto a pezzi la Terra… Eppure, insieme alla paura del domani, all’urgenza di difenderci da presunti, minacciosi pericoli contro i quali occorre di nuovo serrare le fila e a marciare uniformi e compatti, abbiamo maturato la coscienza di come un pensiero emancipato sia l’unico strumento efficace per la ricerca della felicità, ci siamo accorti che siamo diversi l’uno dall’altro e questo è un bene, abbiamo imparato a scrutarci dentro e a cercare nell’altro sensibilità familiari, abbiamo imparato a rigenerare le nostre sofferenze in servizi all’altro e opere d’arte invece di trasformarle in rancore e odio. Possiamo ancora prendere in mano quella pietra dolce come ottant’anni fa per rilanciarla in un rinnovato lago di speranza”.
E come? “Attraverso una rivoluzione silenziosa, fatta di coscienza critica, di educazione, di studio, di mitezza e serietà e – perché no? – di una spiritualità profonda, capace di piegare i moti del nostro ego prorompente e distruttivo verso un’universale appartenenza a un Tutto, amorevole e giusto. Dobbiamo tornare vibranti, giovani e desiderosi di opporci al nero della Storia e alla bestialità dell’uomo che rigurgita ciclicamente ricordandoci di come eravamo, ottant’anni fa, in questa piazza, ebbri di una libertà conquistata e sofferta. Ci vuole coraggio per vivere una vita fino in fondo: prendiamolo da chi lo ha avuto, per noi, ottant’anni fa”.