Referendum consultivo sulla riforma elettorale: nulla da fare, si torna in Commissione

A chiedere il rinvio in Commissione il capogruppo dell'Uv Aurelio Marguerettaz che pone dei dubbi sull'ammissibilità del quesito referendario. A favore della pregiudiziale 31 consiglieri, contro Pcp e Forza Italia Vda.
L'aula del Consiglio regionale
Politica

Doveva essere la giornata delle scelte e invece si è trasformata ancora una volta nell’ennesimo rinvio. La riforma elettorale può aspettare. Si ritorna in Commissione per chiedere l’aiuto di costituzionalisti o esperti sull’ammissibilità del quesito referendario.

A porre una questione pregiudiziale – accolta da 31 consiglieri, contro Pcp e Forza Italia Vda –  in apertura dei lavori del Consiglio Valle è stato il capogruppo dell’Uv Aurelio Marguerettaz.
“Non voglio mettere in dubbio l’istituto referendario” ha esordito Marguerettaz. “ma non ho nessuna remora nel dire che se fosse questo il quesito referendario, dovrebbe essere dichiarato inammissibile perché i principi della Costituzione in merito al referendum indicano che il quesito debba essere formulato in termini semplici e chiari con riferimento a problemi affini e ben individuati prevedendo in caso contrario la reiezione”. 

L’unionista contesta il fatto che invece il quesito così come ora formulato intervenga “su una pluralità di legge, dando indicazioni agli elettori fuorvianti”. 

Per Marguerettaz: “Se vogliamo rispettare anche la volontà dei 3000 firmatari della richiesta di referendum dobbiamo ritornare in Commissione e fare un approfondimento sul fatto che questo referendum possa o meno essere ammesso e in subordine se è possibile che questo referendum abbia non solo un quesito ma più quesiti”. 

Una richiesta che il capogruppo Uv non ha mancato di accompagnare ad un attacco verso il Comitato promotore. “In Svizzera c’è un rispetto profondo del referendum, strumento per conoscere l’orientamento della popolazione, in Valle d’Aosta invece è una chiamata alle armi di chi è contro”.

Dopo una breve sospensione, al rientro in aula il consigliere di Forza Italia Vda Mauro Baccega ha chiesto all’aula di aprire un dibattito, prima di entrare nel merito della pregiudiziale.

“Siamo contrari per ragioni tecniche” si pronuncia per primo Paolo Sammaritani della Lega Vda. “E’ la prima volta che si fa ricorso al referendum consultivo e che qualcuno che a mio parere prende alla leggera. La materia è complessa, gli elettori saranno chiamati ad esprimersi su ben undici principi.” Sollevando dei dubbi sull’ammissibilità del referendum consultivo sulla materia elettorale, il leghista ricorda i disegni di legge iscritti in commissione. “Il dibattito è appena aperto, che senso avrebbe chiedere un parere consultivo alla popolazione, quando non ci sono ancora i termini di paragone?”

Boccia la pregiudiziale Chiara Minelli. “Il quesito è stato predisposto dalla presidenza del Consiglio, non da noi o dal Comitato. Se il problema è il quesito, questo è emendabile e quindi il Consiglio può risolvere il problema.”  La consigliera di Pcp ribadisce come “il nodo centrale” del quesito e della riforma è “l’elezione diretta del presidente del Presidente della Regione e della sua maggioranza”.

Minelli punta, quindi, il dito contro chi vuole “menare il can per l’aia. La popolazione valdostana sarebbe stata contenta se oggi da quest’aula sarebbe arrivata la decisione del referendum consultivo, per chiedere alla popolazione un parere. Era un’occasione importante. Ricordo altri referendum come quello delle matite spezzate, questa volta il consiglio le matite non vuole neppure fornirle”.

A votazione chiusa arriva il commento del gruppo Federalisti Progressisti – Partito Democratico. 
“L’attivazione in Valle d’Aosta, per la prima volta dalla sua introduzione, dell’istituto del referendum consultivo rappresenta un fatto di rilievo, indice della volontà di partecipazione, da una parte della popolazione valdostana, su un tema importante quale quello del sistema elettorale regionale. Per questa ragione riteniamo utile, anche al fine della corretta individuazione del quesito da sottoporre agli elettori, garantire ai valdostani la possibilità di pronunciarsi in maniera consapevole, chiara e completa.”

Forza Italia Vda definisce, invece, il voto comune “una non decisione assunta contra legem dalla maggior parte delle forze politiche rappresentate al suo interno, che hanno scelto di rinviare il dossier in I commissione per approfondimenti nonostante, dettato normativo alla mano, nessuna commissione consiliare sia titolata a effettuare approfondimenti in merito.” Ricordando, inoltre, come anche i saggi della commissione regionale per i procedimenti referendari avevano definito inopportuno il loro coinvolgimento, il movimento evidenzia come “evidentemente fa paura a tanti chiedere cosa pensa la popolazione valdostana sull’elezione diretta del Presidente della Regione e della maggioranza che lo sostiene.”

A commentare la scelta del Consiglio, arriva anche il Comitato per la riforma elettorale.
“Dopo aver a lungo rinviato l’iscrizione della richiesta di referendum ai lavori del Consiglio e dopo aver ricevuto il NO della Commissione per i procedimenti referendari ad intervenire su una questione che non è di sua competenza, stamattina, UV-LEGA e PD hanno bloccato la discussione e la conseguente decisione del Consiglio ponendo una arzigogolata questione pregiudiziale sul quesito formulato dagli stessi uffici della Presidenza del Consiglio.”
Secondo il Comitato “la realtà è che gran parte delle forze del Consiglio regionale o sono contrarie o non sanno che linea prendere sul cuore della riforma la quale prevede l’elezione diretta di maggioranza e Presidente. L’obiettivo comune è evitare assolutamente che la popolazione esprima il proprio orientamento. NO ad ascoltare la voce degli elettori”.

4 risposte

  1. Bien sûr que la réforme électorale n’arrange pas les politiciens que ça fait des décennies sont assis au siége du gouvernement…pas plus simple que ça

  2. “Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte. Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini.

    Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriques e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.

    Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.
    (Piero Calamandrei – tratto dal discorso all’Assemblea Costituente nella seduta del 4 marzo 1947)

  3. „Oggi le persone benpensanti, questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo. […] Finita e dimenticata la resistenza, tornano di moda gli «scrittori della desistenza»: e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre ed accademie. Sono questi i segni dell’antica malattia.

    E nei migliori, di fronte a questo rigurgito, rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo il pericoloso stato d’animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo.

    Dopo la breve epopea della resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.“

    (Piero Calamandrei – tratto da articoli della rivista Il Ponte – ottobre 1946)

  4. “Quando per diventare direttore di una banca, o preside di una scuola, o socio di un’accademia scientifica, o componente di una commissione di concorso universitario è necessario aver la tessera del partito che è al governo, allora quel partito sta diventando regime: allora la politica, che è necessaria e benefica finché scorre fisiologicamente negli uffici fatti per essa diventa, fuori di li, un pretesto per infeudare la società a una classe di politicanti parassiti; diventa una specie di malattia paragonabile all’arteriosclerosi perché impedisce quella circolazione e quel continuo ringiovanimento della classe dirigente, che è la prima condizione di vitalità d’ogni sana democrazia”.
    (Tratto da articoli della rivista Il Ponte – giugno 1950)

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