Dal Congo alla Valle d’Aosta, attraverso il deserto e il mare: la storia di un lungo viaggio

È una storia impregnata di dolore, ma con un lieto fine, quella di un giovane congolese che oggi vive e lavora in Valle d’Aosta. All’età di venticinque anni ha deciso di lasciare l’Africa per salire su un’imbarcazione insieme ad altri circa 150 migranti, alla volta dell’Italia.
Immagine deserto
Società

Ogni anno migliaia di persone raggiungono le coste italiane alla ricerca di un futuro migliore: sono uomini, donne e bambini, e molto spesso anche ragazzi senza più una famiglia, che decidono di lasciare il proprio Paese, imbarcandosi in un lungo viaggio che non dà loro alcuna certezza di sopravvivenza. I motivi che spingono a partire sono diversi per ciascuno. La povertà, lo scoppio della guerra civile e la perdita di una persona cara sono i motivi che diversi anni fa hanno spinto Joseph (nome di fantasia ndr) a lasciare l’Africa, la sua terra, attraversando prima il deserto e poi il mare, fino ad arrivare in Valle d’Aosta. La sua è una storia impregnata di sofferenza, ma che, però, può dirsi con un lieto fine.

L’infanzia in Congo

Joseph nasce nella Repubblica Democratica del Congo nel 1991, dove trascorre l’infanzia in povertà da solo insieme alla madre, una donna profondamente segnata da una violenza sessuale subita in giovane età, che ha sempre sofferto di problemi di salute mentale, senza aver mai avuto la possibilità di curarsi. I primi anni della sua vita li trascorre in una casa vicino a una chiesa, messa a disposizione dalla parrocchia. Fin da subito instaura, quindi, un forte legame con la religione cristiana, e in particolare con il gruppo degli Scout, associazione che lo accompagnerà dall’infanzia fino all’età adulta.

La sua vita, però, cambia radicalmente un lontano 24 aprile, quando la madre, investita da un’auto, perde la vita davanti ai suoi occhi. All’epoca aveva sette anni. Dopo la morte della madre, si trasferisce dagli zii, dove però non riesce mai a sentirsi davvero a casa. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza non andrà mai a scuola – non avendo mai avuto i soldi necessari per pagarla -, ma imparerà a leggere e scrivere in età adulta – direttamente in italiano – una volta arrivato in Valle d’Aosta. Solo in un secondo momento imparerà a leggere in francese, la sua lingua madre.

L’inizio del viaggio

All’età di diciassette anni, il giovane fugge dal suo Paese una volta scoppiata la guerra civile, cominciando così un lungo viaggio che lo porta ad attraversare gran parte del centro dell’Africa fino a raggiungere la Libia e poi l’Italia. Dopo essere partito, arriva prima alla città di Brazzaville, capitale del Congo (a ovest rispetto alla Repubblica Democratica del Congo nel quale è nato). “Lì mi sono unito ad un gruppo di scout e ho iniziato a fare delle attività con i bambini – racconta -, accompagnavo gli studenti nel tragitto da casa a scuola, facevo il baby-sitter e mi prendevo cura di loro. Ma la guerra civile ad un certo punto è arrivata anche nella capitale e da lì sono dovuto scappare a Nord verso il Camerun, dove ho fatto tutto quello che ho potuto. Lavoravo di continuo e se ero fortunato mi pagavano. Sono rimasto lì fino a quando non è scoppiata la guerra anche in Camerun e allora mi sono rimesso in viaggio. L’idea all’inizio non era quella di scappare per andare in Italia, dell’Italia non sapevo assolutamente niente fino a quando non me ne hanno parlato degli amici”.

Per arrivare nel nostro Paese, si sposta prima in Nigeria, dove alle difficoltà affrontate nei paesi precedenti si somma quella della lingua, visto che non parlava l’inglese (lingua ufficiale dello Stato), e poi in Chad e in Niger. “Da lì ho dovuto attraversare il deserto, dove non c’era acqua, non c’era assolutamente nulla oltre alla sabbia. Ma tornare indietro era più pericoloso che proseguire” spiega. L’ultima tappa del suo viaggio in Africa è nella città di Al-Zintān, nel nord-ovest della Libia. “Posso dire di aver avuto la fortuna di non finire mai ammanettato né tanto meno in prigione, ma in Libia ho visto morire tanti miei compagni. Mentre camminavo, una sera mi fermano, pioveva, ero con altre nove persone, alcune malesi e senegalesi, altre del Camerun, e ci fanno inginocchiare con le mani dietro la testa puntando i fucili davanti a noi, mentre urlavano qualcosa in arabo – racconta a proposito di uno dei ricordi più dolorosi del suo passato -, subito dopo hanno iniziato ad uccidere una per una tutte le altre persone che erano con me, finché il fucile ha smesso di funzionare. Allora mi hanno chiesto di scavare delle buche per mettere dentro i cadaveri, poi mi hanno chiesto tutti i soldi che avevo e solo dopo mi hanno lasciato andare e sono scappato lontano. Ero completamente da solo, ma non potevo più tornare indietro”. Mentre è in Libia lavora soprattutto come muratore (anche se molto spesso non viene pagato). I soldi gli servono per sopravvivere: “quando ti minacciano, puoi salvarti solo dando dei soldi, altrimenti non ti lasciano passare e sei morto”, racconta, e per pagare il viaggio per arrivare in Italia.

Dalla Libia all’Italia

Nel racconto del suo viaggio dalla Libia alla Sicilia si fondono ricordi sfocati e immagini ancora vivide, impresse per sempre nella memoria e negli incubi. È il 2016 quando Joseph lascia la costa libica in un’imbarcazione con a bordo quasi 150 persone, ma di queste in Sicilia ne arrivano solo quindici. Tutte le altre perdono la vita, annegando in mare. Il giovane rimane sulla barca per quelli che gli sembrano essere circa due giorni, fino a quando viene portato in salvo da una nave che trasporta lui e gli altri pochi sopravvissuti in Sicilia. “Quella notte il mare era molto mosso, eravamo partiti da poco quando la barca ha iniziato ad affondare. Per fortuna una grossa nave ci ha avvistati. Era notte, mentre sopra di noi passava un elicottero, ci hanno lanciato delle corde e dei salvagenti, ma molti non sono stati in grado di acchiapparli. Avevamo paura, c’erano tantissime persone che gridavano per chiedere aiuto, ma dalla nave continuavano solo a chiederci chi stesse guidando” racconta a proposito di quella notte. Dopo un tempo che ricorda infinito, la nave riesce a portare in salvo i quindici sopravvissuti che vengono fatti sbarcare sulla costa siciliana e poi accolti in un hotspot. Lì vengono effettuate le operazioni di primo soccorso e di assistenza sanitaria, oltre a quelle di identificazione: “appena arrivato, hanno controllato come stessi e mi hanno chiesto come mi chiamavo e da dove arrivavo, poi ci hanno divisi. Una volta sbarcato, non ho mangiato per due giorni”.

Gli anni in Valle d’Aosta

Dopo poco tempo, Joseph viene trasferito in pullman in Valle d’Aosta. Una volta arrivato viene seguito da una delle cooperative valdostane che si occupano di aiutare i migranti stranieri, trovando loro un’abitazione e seguendoli nell’iter burocratico per i documenti. Le prime settimane in Valle d’Aosta sono durissime per lui: “Quando sono arrivato qui non è stato facile, anche se mi sono sempre sentito accolto. All’epoca non riuscivo a dormire la notte, avevo incubi ricorrenti e continuavo a sognare mia madre, così un giorno ho cercato di togliermi la vita. Mi ha salvato una donna che lavorava per la cooperativa che mi stava aiutando e che poi mi portato da un medico”.

Dal momento in cui è arrivato,  Joseph ha sempre cercato di rendersi utile e darsi da fare per aiutare le varie comunità in cui si è trovato a vivere, prima in Alta Valle e poi in vari comuni della media Valle. Per un lungo periodo si è tenuto occupato con piccoli lavori di pulizia e manutenzione: si occupava delle strade, svuotava i bidoni dell’immondizia ogni giorno, curava le tombe nel cimitero, puliva la chiesa e organizzava le attività per bambini in oratorio, il tutto spostandosi con una bicicletta che gli aveva regalato una signora del paese. Appena ne ha avuto l’occasione si è poi unito agli scout valdostani, dove ha trovato un gruppo pronto ad accoglierlo. Terminato il periodo di permanenza nell’alloggio messo a disposizione della cooperativa, è stato accolto gratuitamente in un appartamento della parrocchia. In quel periodo, grazie all’aiuto del parroco del paese, ha trovato il suo primo lavoro in Valle d’Aosta, in un ristorante in alta montagna, dove lavora ancora oggi durante la stagione invernale. Con i soldi guadagnati con il primo stipendio ha fatto costruire una tomba in Congo per la madre dove vorrebbe poter tornare per comprare in futuro una casa.

Oggi Joseph lavora nelle cucine di alcuni ristoranti di montagna, a volte come lavapiatti e altre come aiuto cuoco, sia durante l’inverno che l’estate. Il resto del tempo lo passa facendo volontario – accompagna a piedi i bambini a scuola partecipando al progetto “Pedibus” – oppure organizza attività con il gruppo scout. Seppur impregnato di momenti profondamente dolorosi, il percorso di Joseph può dirsi ora con un lieto fine. Quando non è in montagna per lavoro, vive con una famiglia conosciuta con il gruppo degli scout, diventato a tutti gli effetti il nucleo familiare che non ha mai avuto. “Ho sempre visto i bambini camminare mano nella mano con i loro genitori, ma io non avevo mai vissuto una cosa simile, non sapevo cosa volesse dire avere una famiglia, avere qualcuno che si preoccupa per te e che ti chiede anche solo se hai mangiato e stai bene. Mi sono sentito sempre molto solo. Ora invece posso dire di avere una mamma, un papà, ma anche dei fratelli. Nonostante tutto, da quando sono arrivato in Valle d’Aosta, ho avuto la fortuna di trovare sempre persone che mi hanno aiutato e accolto, ed anche per questo che continuerò a darmi da fare e a provare a ricambiare l’aiuto che ho ricevuto.”

Una risposta

  1. Per una storia a lieto fine, quante invece si sono concluse in modo drammatico? L’inserimento dei migranti deve diventare un progetto di sistema, e non lasciato (al seppur encomiabile) buon cuore dei singoli!

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