Politico, giornalista, già presidente nazionale di Arcigay e fondatore della prima associazione gay e lesbiche della Valle d’Aosta. Aurelio Mancuso è un personaggio che, tra gli anni ’90 e i primi duemila, ha iniziato un percorso di attivismo e presa di posizione nella lotta per i diritti di gay e lesbiche che si è concretizzata – tra le altre cose – in un pubblico coming out sulle pagine della rivista “Il Corsivo” di cui era responsabile all’epoca. Insomma, il valdostano Aurelio Mancuso rappresenta un pezzo fondamentale della storia della comunità e del movimento LGBTQI+ in Valle d’Aosta e, in occasione dell’Aosta Pride (il primo della regione), abbiamo voluto intervistarlo per raccontare il suo punto di vista sul tema.
Lei è stato tra i fondatori della prima associazione LGBTQI+ in Valle d’Aosta. Come nacque l’idea e quale fu la risposta dei valdostani all’epoca?
La nostra associazione nasce il 9 marzo del 1995. Per due anni abbiamo riflettuto, ci siamo riuniti e abbiamo cercato di capire meglio cosa potevamo fare. Non è stata una nascita semplice, ma sembra già un secolo fa, la realtà attuale è completamente diversa. Allora non c’era niente e avevamo dubbi su come saremmo stati accolti. La nostra associazione nasce da un gruppo di amici, eravamo molti, soprattutto molte donne e insieme abbiamo deciso di provarci. Sono stato io a iniziare andando a Bologna all’Arcigay nazionale. Tra il ’93 e il ’94 ho partecipato a due riunioni e poi ho scritto l’articolo su Il Corsivo che ha dato il via a tutto. La nostra è stata un’esperienza molto particolare anche all’interno del nazionale, perché il nostro era un gruppo di diverse estrazioni politiche. C’era gente di sinistra, persone più vicine ai partiti autonomisti, e anche la destra che trent’anni fa significava Forza Italia, un’area più di centro-destra e anche con i loro rappresentanti avevamo buoni rapporti. Eravamo atipici anche per questo: la nostra associazione nasce con l’idea non tanto di fare affermazioni politiche e culturali, ma per far uscire allo scoperto le persone che conoscevamo – e non – dando loro la possibilità di avere una comunità alle spalle e un’occasione per socializzare. Era un’associazione molto pragmatica e anche per questo ha avuto successo.
Il modo in cui ha espresso il suo orientamento sessuale negli anni (mi riferisco in particolare al coming out sulle pagine de Il Corsivo di 26 anni fa) è stato molto pubblico. Da cosa nasce questa scelta?
Beh, l’ho fatto quando già vivevo da solo da molto tempo, quando avevo 32 anni. Io non avevo alcun problema di discriminazione mia personale. Non stavo subendo, né ho mai subito evidenti problemi riguardo la mia omosessualità, i miei amici lo sapevano e la mia famiglia lo ha saputo una settimana prima che uscisse l’articolo. Questa scelta per me è stata frutto di un cammino di maturazione e mi è venuto abbastanza naturale in quegli anni in cui il movimento gay e lesbico si stava diffondendo. Ho fatto una scelta di autenticità per essere quello che ero senza più nascondermi. Ma è stata anche frutto di una riflessione: sapevo che la mia dichiarazione pubblica avrebbe dato il coraggio a tanti e a tante di uscire allo scoperto. Questo fatto ha un po’ confuso anche persone nell’ambiente politico e giornalistico. Per un mesetto sono stato assediato da interviste e giornalisti che volevano saperne di più, poi si è passati direttamente ad un mormorio silenzioso… Mi sono sentito gli occhi addosso per anni. Perché era una novità e un atto che in una piccola realtà come la Valle d’Aosta ha avuto il suo momento di gloria. Ancora oggi quando vengo in Valle e qualcuno mi riconosce c’è questo mormorio. Ho fatto anche una scelta di andare via, ma non per la mia condizione omosessuale. La Valle mi stava stretta per la mia gratificazione politica e sociale e avevo voglia di vivere esperienze più aperte, cosa che ho desiderato da sempre, fin dall’adolescenza quando a 14 anni prendevo il treno da solo per andare in discoteca a Milano.
Attraverso le associazioni, ha portato avanti diverse rivendicazioni. Quali sono state le lotte più significative per lei? Si ricorda di un momento in cui una di queste richieste è stata ascoltata?
Nel ’98, con la prima legge sulla famiglia regionale che voleva definire la famiglia solo come una coppia uomo-donna sposati. Noi abbiamo fatto una battaglia politicamente trasversale, con diversi consiglieri regionali e abbiamo vinto impedendo che ci fosse una discriminazione di fatto. Per quegli anni è stata una grande vittoria. Ma la nostra era una presenza costante. Abbiamo fatto per anni feste in discoteca con spettacoli che organizzavamo noi, con i nostri associati, ma partecipavano anche persone eterosessuali. Era proprio una produzione dal basso che aveva attorno a se molto sostegno. Non abbiamo mai ricevuto attacchi né da politici né da nessuno. Ma c’era ancora un certo timore di uscire allo scoperto, molti di noi conoscevano tanta gente che è rimasta nell’ombra, e ancora adesso lo è. C’erano discriminazioni latenti, chiacchiericci, pettegolezzi e giudizi più o meno espliciti.
Lei non abita più in Valle d’Aosta da 21 anni, ma ho letto che spesso torna. Come le sembra cambiata la Valle in questi anni da un punto di vista dell’ambiente LGBTQ?
Confesso che è un ambiente che non conosco perché c’è stata una certa interruzione dalla nostra esperienza, con due diversi gruppi che si sono susseguiti fino a oggi, quindi le associazioni locali posso dire di non conoscerle. Tanto più che quando salgo ad Aosta torno dai miei parenti e dai miei amici di allora che non hanno più contatti. Ma è giusto così, è bello che ci siano giovani con idee e obiettivi diversi. Più in generale, non ho notato grandi cambiamenti, ma è anche vero che noi allora avevamo una sede e una sfrontatezza necessaria al tempo. Non nel modo di presentarci – eravamo biecamente dei piccolo borghesi, il tipico omosessuale che non riconosceresti mai -, ma avevamo come atteggiamento collettivo quello di presentarci ed esprimerci molto chiaramente. Allora era una grande novità anche semplicemente essere chi eravamo senza più filtri e censure, e poi comunque facevamo le feste a cui venivano centinaia di persone e in cui ci esponevamo pubblicamente… Non erano tutti gay e lesbiche, ma c’erano molti eterosessuali, tra cui anche chi non era pronto ad esporsi.
Parlando della prima associazione queer della VdA la definisce: “associazione di gay e lesbiche”. Negli anni la comunità queer è cambiata, è cresciuta ed ora uno degli argomenti “caldi” dell’attivismo è proprio il dibattito sul genere. Lei cosa ne pensa?
In origine, allora, la spinta era di costruire una comunità Gay e Lesbica, c’erano delle persone transessuali che partecipavano e avevano dei contatti con noi. Non è però corretto parlare di comunità queer per trent’anni fa, anche se la teoria queer esisteva già da molti anni. In questo senso la teoria sul genere è una nuova spinta, centrale solo degli ultimi anni. Poi vorrei specificare che esiste una differenza tra comunità e movimento LGBTQI+: un conto sono le idee del movimento e un conto è la comunità. Il movimento ha una funzione prettamente politica e sociale, è composto da persone che militano per obiettivi politici e culturali e rappresenta una minoranza rispetto alla comunità che in questo paese comprende oltre 4 milioni di persone. È bene ricordarsi che il movimento è al servizio della comunità e che le idee che porta avanti sono preziose perché sono utili nel quotidiano, ma poi esiste anche la comunità più vasta le cui idee non coincidono con quelle del movimento. Il movimento è un’avanguardia che rappresenta l’esigenza di una libertà personale inderogabile. Come poi si sviluppi questa libertà è giustamente argomento di dibattito.
Questo è il primo Pride della Valle d’Aosta. Per lei a cosa serve questa manifestazione?
È una manifestazione molto importante con una storia molto specifica che ha permesso a milioni di persone di uscire dalla clandestinità. L’aspetto festoso è solo uno dei tanti, ma non è l’unico. Partecipare a questo evento significava anche prima di avere il coraggio di uscire allo scoperto e di affrontare una società avversa alle persone LGBTQI+. Farlo ad Aosta ha un significato ancora più forte in quanto siamo la regione più piccola d’Italia: un luogo abbastanza laico, ma allo stesso tempo molto provinciale. È un grande passo in avanti e un segnale molto positivo, per questo ci tengo a ringraziare gli organizzatori che hanno e stanno facendo un bel lavoro.
Secondo lei perché la Valle d’Aosta ci ha messo così tanto ad organizzare un Pride?
Ci sono ragioni storiche. Solo negli anni più recenti il pride è così diffusamente territoriale. Fino agli anni 2010/12 i pride si facevano già in diverse città ma solo nei grandi centri. Ce n’era uno nazionale itinerante che ogni anno veniva organizzato in una città diversa e poi i grandi pride di Milano, Roma, Napoli, Bologna… Poi, nell’ultimo decennio c’è stato lo sviluppo dell’onda pride per cui anche nelle piccole realtà sono nati i pride frutto di una distribuzione capillare delle associazioni anche nelle zone di provincia. Bisogna sempre ricordare che l’Italia è maggiormente composta da piccoli centri, quindi queste battaglie bisogna combatterle per vincerle in quei luoghi, dove ci sono ancora persone che vivono la loro omosessualità con pressioni non indifferenti. Ad esempio una persona che vive a Saint-Vincent è molto meno aperta su questo rispetto a qualcuno che vive a Roma. Questo è l’aspetto negativo della la vicinanza e la conoscenza personale dei piccoli centri che mette una pressione sociale non indifferente. Il pride è simbolicamente un fatto che rompe uno schema. Farlo ad Aosta, realtà in cui ci sono davvero tanti omosessuali, per me è la chiusura di un ciclo. Anche noi sognavamo allora di fare un pride ad Aosta ma lo vedevamo come la ricerca dell’Arca perduta e, più sommessamente, partecipavamo agli altri pride. Davvero questo è un grande merito degli organizzatori. Ci vuole coraggio, una parola che non vorrei più usare questi eventi che dovrebbero essere completamente normali nella cultura moderna, ma invece…
A questo proposito ho letto molti commenti sui social e sul nostro giornale che criticano questo evento, mettendolo in discussione e anche insultando la comunità LGBTQI+. Lei come legge il fenomeno?
Quella vigliaccheria che si nasconde dietro le tastiere c’è ormai per ogni cosa, ma secondo me, più in generale esprime un odio contro le persone omosessuali qualsiasi cosa facciano, anche se facessimo un concerto di musica classica si avrebbe da ridire. Questo è un odio fisiologico che però è indice di successo. Più c’è questa reazione più significa che quello che si sta facendo ha una portata rivoluzionaria (uso una parola un po’ drammatica), che ha successo, che è partecipato e che può cambiare le cose. In questo senso crea conflitto, non in senso violento, ma nel senso di scambio e di portare nuove idee. Ci sono poi ancora le persone che negano l’esistenza delle persone omosessuali perché si sentono attaccati nel loro intimo, e una parte che ha paura. Ci sono molti omosessuali (una parola che uso per le persone che non vivono allo scoperto) scontenti che odiano e che si scagliano contro chi, invece, vive alla luce del sole. Si chiama omofobia interiorizzata e si manifesta nel nascondere a se stessi il proprio orientamento. Anche questo ci sta ed è un fatto di per sé positivo, perché è solo da pochi decenni, sia in Italia che nel Mondo, che si riconosce che esistano sessualità diverse da quella etero.