Don Ciotti a Quart avverte: “Attenti a non normalizzare il problema delle mafie”

Ospite ieri sera all'Auditorium delle scuole medie del Villair di Quart, il Presidente di Libera ha cercato di rispondere all'interrogativo: "Etica, legalità, giustizia, quali sfide per la società di oggi?".
Don Luigi Ciotti
Società

Siate orgogliosi di essere valdostani se siete originari di qua e se siete calabresi siate orgogliosi di esserlo”. Saluta così il pubblico valdostano presente all’incontro di ieri sera don Luigi Ciotti, introdotto dal sindaco di Quart Fabrizio Bertholin, dal Presidente del Consiglio Valle Alberto Bertin e dal vicepresidente di Libera VdA Fabrizio Bal. A poche settimane dalla pronuncia della sentenza di secondo grado del processo Geenna, il tema delle infiltrazioni mafiose in Valle d’Aosta torna in primo piano nella nostra Regione in cui, come spiega Bertin, “solo di recente si è avuta diffusa consapevolezza su questo fenomeno, anche se era già presente esplicitamente dagli anni ’90”. L’associazione Libera Valle d’Aosta è un esempio della nuova sensibilità sul tema, con le sue numerose iniziative portate avanti nonostante la pandemia. Dagli incontri di formazione online con gli studenti, ai campi giovanili, alla seconda edizione della Giornata Libera prevista per questo sabato a Saint-Pierre, le numerose attività dell’associazione sono, secondo le parole del vicepresidente, la testimonianza che “gli anticorpi contro la mafia spesso mancano, ma si possono formare”. 

Don Ciotti sottolinea l’importanza di distinguere il valore dei molti immigrati che dal sud Italia sono venuti a lavorare con forza e dignità nella nostra regione, dalle radici malsane della mafia che “è una storia che arriva da lontano fino in Valle d’Aosta”. Molti sono i personaggi ricordati da Don Ciotti, dai magistrati Giovanni Selis e Bruno Caccia, che colsero già negli anni ’70 i primi fermenti mafiosi in Valle, a don Luigi Sturzo, che con una sorta di ‘profezia’ aveva avvisato più di un secolo fa che “la mafia ha i piedi in Sicilia e la testa forse a Roma, ma risalirà sempre più forte e crudele per andare oltre le Alpi”. La conferma ne è data dai numerosi impegni di Libera fuori dall’Italia, dove sempre più giornalisti e magistrati sono vittime di attentati mafiosi per essere scesi troppo in profondità nella loro professione. 

L’esempio della Maison du Tsan a Challand-Saint-Victor, proprietà confiscata dallo Stato alla criminalità organizzata e inaugurata per il suo nuovo uso il 14 agosto, permette invece di sottolineare l’importanza della confisca come “schiaffo alla violenza criminale e ai suoi patrimoni”. La legge che l’ha istituita, voluta da Pio La Torre nel 1982, è stata estesa grazie ad una petizione di Libera all’uso sociale dei beni confiscati, che diventano così “palestre di democrazia e di vita”, permettendo una sorta di “bonifica sociale e culturale”. A fronte dei sempre più numerosi investimenti delle mafie all’estero, Libera si è battuta cinque anni per ottenere dal Parlamento europeo una direttiva sulla confisca dei beni della criminalità organizzata anche nell’Unione, dove sono già numerose le case riconvertite in strutture di accoglienza e di uso sociale. 

Nonostante i numerosi risultati positivi accumulati pian piano, frutto dell’”alfabeto del noi e non del monologo dell’io e dei viaggiatori solitari, di cui bisogna sempre diffidare”, molti restano i motivi di inquietudine. Il primo allarme è dato dalla progressiva normalizzazione del problema delle mafie che, come spiega Don Ciotti, “sta diventando uno fra i tanti problemi, complici la pandemia e, soprattutto, la capacità della criminalità organizzata di sfruttare strategie e tecnologie sempre più sofisticate e innovative”. Nonostante le mafie si stiano manifestando in forme meno aggressive e apparentemente più innocue, restano immutati i loro tradizionali interessi e la loro presenza sul territorio, che oggi è maggiore al nord che al sud. Le mafie oggi fanno affari nelle principali piazze finanziarie del mondo, con strategie e linguaggi sempre più avanzati e difficilmente intercettabili, sfruttando anche l’inerzia dell’Ue rispetto ai paradisi fiscali presenti nel suo territorio. 

L’intervento si chiude sulle tre parole chiave della riflessione, a partire dall’etica, che è “il primo argine all’illegalità, ricerca di ciò che ci rende autentici, espressione prima della nostra corresponsabilità”. L’etica “non può ridursi solo a codici ma parte dal cuore e chiama in causa l’integrità della nostra vita”. Ricordando l’affermazione di Falcone secondo cui le istituzioni sono sacre, Don Ciotti consiglia di non confonderle con le persone e di guardare all’etica non come a un obiettivo tra gli altri, ma come “lo sfondo di tutti i nostri progetti”. 

Il fondatore di Libera passa poi a stigmatizzare l’ipocrisia che si cela dietro al termine legalità, “da troppi usato come lasciapassare, per mettersi le coscienza in pace nascondendosi dietro a questa specie di passaporto che è diventato quasi un idolo”. Richiamandosi ancora una volta a Falcone, Don Ciotti auspica un uso più vitale del concetto, che senza civiltà si riduce a una parola astratta. L’invito è dunque quello di sviluppare una “cultura della legalità che affondi le sue radici in un profondo ethos religioso, sociale e culturale”, prima di tutto attraverso l’educazione. Il ricordo va questa volta a Nino Caponnetto, ‘padre’ del pool antimafia di cui facevano parte Borsellino e Falcone, secondo il quale “la mafia teme l’istruzione più che la giustizia, perché taglia l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa”. 

Infine, l’ultimo termine permette di invitare alla lettura dell’enciclica papale Laudato si’, che insegna che la giustizia non è solo quella dei tribunali, ma deve “cogliere il grido dei poveri e della terra, qualificandosi innanzitutto come giustizia sociale e ambientale”.

L’augurio finale è quello di “rigenerarci per non degenerare”, smettendo di “dare vecchie risposte a nuovi bisogni che urgono rinnovamento”. Di fronte ai grandi cambiamenti epocali in atto, è necessario uno scatto in più, a cui siamo incoraggiati anche dalle Sacre Scritture, in cui il termine ‘nuovo’ ricorre oltre 350 volte. Come l’antico simbolo dei monaci raffigurava un uccello notturno dai grandi occhi, in grado di cantare il richiamo quando il silenzio della notte avvolge tutti gli altri, così anche noi dobbiamo restare vigili, senza rifugiarci nel passato e cercando nuove risposte che reggano l’urto dei tempi.

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