Una speranza, un respiro che diventa lieve e che permette di mettere la parola fine a un incubo: “Sembra che sia finito, ma io non ho ancora messo il naso fuori di casa e non so come sia là fuori!”
L.B. abita a Charvensod ed è nella sua residenza che ha combattuto e sconfitto il covid-19 in 3 settimane di quello che definisce “un periodo in cui non sono mancate le riflessioni su tutto quello che si ha e che si vive e un pensiero costante a chi non ce l’ha fatta”.
La cronistoria del virus nelle parole di L.B. scorre molto veloce: “Ho iniziato ad avere la febbre nella notte del 7 marzo, mi è stata misurata la saturazione dell’ossigeno nel sangue e segnava un livello molto basso, quindi il medico ha richiesto il tampone e il giorno seguente è arrivata la notizia che non speravo di ricevere: tampone positivo”.
Iniziano così 3 settimane di paura, i primi 10 giorni con la febbre alta, poi costanti dolori alla testa e alla schiena e soprattutto uno stato di solitudine importante, aspetto psicologico che molti dei pazienti affetti da covid-19 descrivono come la vera e propria tragedia: “Il mio è un caso fortunato perché rimanere a casa è un privilegio, ma comunque si è da soli e si sta male”. A riempire la testa dei malati sono le domande, insistenti e spesso senza risposta. I pensieri riempiono la testa e non si fa altro che pensare a “dove lo avrò contratto, con chi ho avuto contatti, a chi lo avrò passato”. Si contrae il virus, ma al tempo stesso ci si sente untori: “Ti cade il mondo addosso quando il risultato del tampone ti viene comunicato. Ho iniziato a pensare in maniera molto preoccupata alle persone che erano state con me, ai miei cari. Mia madre ha contratto il virus, ha 85 anni, ha fatto la quarantena a casa, come me, e anche lei ha vinto questa battaglia. Ora sta aspettando il terzo e ultimo tampone, ma già il secondo era risultato negativo e questa è un’altra notizia che mi riempie di gioia”.
Rimanere a casa, senza modo di avere contatti con l’esterno e con mille domande è forse la questione psicologica più difficile da comprendere e anche da realizzare quando ci si trova nel mezzo della battaglia: “All’inizio non capivo molto bene, avevo alcune idee sul virus, ma devo dire che ad oggi tutte le convinzioni, tutte le priorità che uno ha nella vita, se si attraversa un momento del genere, vengono spazzate via, vengono capovolte e tutto cambia. Sono felice di uscire da questa situazione, anche se, fisicamente, ancora sono in una bolla perché non so come sia fuori dopo 26 giorni. Anche psicologicamente sono ancora in una situazione ovattata; dopo pochi giorni di isolamento ho spento la televisione perché non riuscivo più a seguire le notizie, tutto mi provocava solo ansia e crisi, guardavo solo dei film”. La bulimia di notizie riguardanti il coronavirus non aiuta le persone che affrontano la malattia in casa, L.B. confida che a destabilizzare lo stato d’animo “era soprattutto il numero dei morti ed è una cosa che non si affronta facilmente”.
La prima settimana di degenza ha coinciso con l’inizio dell’epidemia in Valle d’Aosta, ecco perché L.B. ammette che le chiamate non erano frequenti dai presidi sanitari, poiché “tutti stavano e stavamo cercando di capire cosa fosse e come affrontarlo”, anche se nelle settimane successive “le chiamate si sono intensificate e l’assistenza è radicalmente cambiata in meglio”.
Vinto il nemico, il pensiero di L.B. corre veloce a chi combatte la stessa battaglia e al personale sanitario: “Vorrei davvero ringraziare il dott. Bongiorno, una persona incredibile e dalla grande professionalità, addirittura mi ha scritto ieri sera (1aprile ndr), alle 22, per dirmi che il tampone era negativo e sapere che una persona, che lavora tutto il giorno in condizioni difficili, pensi a questa comunicazione e ci tenga a farla anche se di notte è lodevole. I dottori che lavorano in questo modo e in questa situazione sono da ammirare e da elogiare; ho promesso al dott. Bongiorno che una volta tutto finito ci sarà modo perché lo ringrazi dal vivo!”.