Ogni giorno decine di lettere finiscono nella casella di posta, fisica o virtuale, de La Stampa. E’ un flusso ininterrotto di parole che racconta l’Italia di oggi. Sono state proprio le lettere a convincere il direttore del giornale, Mario Calabresi, a pubblicare il suo ultimo libro, “Cosa tiene accese le stelle”. Lo ha raccontato lui stesso ieri sera a Courmayeur, incontrando il pubblico. “Ogni giorno mi scrivono delle persone di più di cinquant’anni, che deplorano con amarezza il presente e rimpiangono il passato, difficile ma migliore. Dall’altra parte, tutti i giorni, da un anno a questa parte, ricevo sempre più lettere di giovani, universitari o liceali, che sostengono che in Italia non c’è futuro. Ma le cose stanno proprio così?”.
Uno sguardo alle difficoltà del passato.
Secondo la tesi del libro la prospettiva non può essere così negativa. Ma Calabresi non ama essere definito un ottimista. “Credo semplicemente che non esista un fato irreversibile, e che abbiamo ampi spazi di manovra per migliorare. Intanto – ha spiegato – non è vero che si stava meglio quando si stava peggio, per citare un vecchio adagio. Bastano pochi esempi illuminanti: la classe politica degli anni settanta non era tanto migliore di quella odierna, se ha lasciato solo Giorgio Ambrosoli sia in vita che in morte, abbandonandolo ai suoi assassini. Al suo funerale le istituzioni non c’erano, neanche un sottosegretario, un prefetto. Invece la medicina, in questi anni, ha fatto passi da gigante, la vita si è allungata, la mortalità infantile è quasi scomparsa, e non si parla più di “male incurabile”. Siamo meno poveri: nel 1961 solo un terzo delle famiglie poteva comprare carne regolarmente, e 4 case su 10, a Milano, non avevano il bagno in casa. Le comodità non erano date per scontate, ma la fatica sì: i miei genitori si sono laureati in tempo, pur lavorando di giorno e studiando la sera, per loro non è stato un trauma, ma un fatto normale, anzi, una fortuna”.
Consigli ai giovani in cerca di lavoro
I nostri tempi però sono caratterizzati da una cronica mancanza di speranza nel futuro. Cosa è cambiato? “ Non abbiamo più spazio. Spazio fisico, innanzitutto, perché non c’è più un altrove dove proiettare le proprie aspirazioni. Un tempo l’emigrazione interna serviva proprio a questo. La fabbrica al Nord assorbiva il desiderio di ascesa sociale di migliaia di persone. Però soprattutto, manca lo spazio mentale delle opportunità. La generazione dei genitori ha potuto sopportare certe privazioni perché sperava in un futuro migliore per i propri figli. I figli, ora, assistono al disfacimento delle speranze”. C’è chi è almeno in parte immune a tanta disperazione, anche adesso, anche in Italia: i figli degli immigrati “hanno una percezione diversa del paese e del futuro, continuano a ritenere lo studio importante, stanno diventando i primi della classe. Sempre più spesso, tra liceali, sono loro a disputare, ad esempio, le olimpiadi della fisica o della matematica. Sono energie preziose che è giusto coltivare e valorizzare”. Quanto agli italiani, secondo il direttore della Stampa, devono imparare ad orientarsi in una società globale, dove i paesi emergenti non parlano più inglese. “Imparate il cinese, andate a lavorare in Polonia, e non abbiate paura della fatica. Non studiate tutti la stessa cosa. In Italia abbiamo un terzo degli architetti dell’Unione Europea, e in provincia di Roma ci sono più avvocati che in tutta la Francia. Le opportunità ci sono, ma richiedono energia, capacità di leggere una società rapida, profondamente mutevole, senza certezze, ma carica di potenzialità”.
Solidarietà intergenerazionale e nuove energie
Quando il microfono è passato al pubblico per le domande di rito, tra gli interventi c’è stato quello di una signora che ha deplorato l’assenza di ciò che un tempo si chiamava solidarietà di classe. “Rimpiango i tempi delle lotte operaie. Oggi i pensionati sono soli, e i giovani lo stesso, ciascuno vive isolato nel suo problema. Dovremmo fare fronte comune, invadere le piazze, unirci”. In risposta, Mario Calabresi ha sostenuto, viceversa, che in questo caso un po’ di ottimismo è giustificato. “Un tempo ognuno era parte di una narrazione collettiva, poi sono arrivati i tempi dell’individualismo spinto. Finalmente però siamo alla fine di questo ciclo incentrato sui bisogni individuali, stanno emergendo delle nuove energie di aggregazione. E’ un po’ difficile scorgerle, ma solo perché non hanno ancora rappresentanza politica e visibilità. D’altra parte – ha concluso Calabresi – è pur vero che adesso, rispetto ad anni fa, la classe politica è ben poco rappresentativa dei cittadini. Altro che specchio fedele, chi governa è peggiore di chi è governato. E con questo, non tacciatemi di antipolitica".