“Se non facciamo pace con le cose del mondo non faremo pace nemmeno tra noi umani.” Queste le parole del professor Raffaele K. Salinari all’evento organizzato da Cittadella dei giovani nell’ambito del progetto interregionale Culture stops hate, in collaborazione con Rete antirazzista, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato istituita nel 2001 per fare memoria dell’approvazione della Convenzione Onu sullo status di rifugiato, siglata nel 1950.
Il tema delle relazioni tra uomo, cose viventi e oggetti è stato il perno intorno al quale gli interventi della serata sono ruotati.
Giorgio Sena di Asinitas, onlus che si occupa dell’educazione, istruzione e inserimento sociale dei rifugiati e non solo, spiega come l’apprendimento dell’italiano per uno straniero non sia importante solo per soddisfare le proprie esigenze come la ricerca di un lavoro o l’interazione con la comunità italiana ma, per colui che ha dovuto lasciare casa, imparare la nuova lingua significa poter “ricucire la sua storia passata con il presente”. Il simbolo di questo strappo, spesso non ricucito, è proprio il nome di rifugiati che di frequente viene o riportato in maniera errata nei documenti o viene storpiato per essere reso più pronunciabile dagli italiani. Sena mette in guardia dal fatto che modificare il proprio nome per essere meglio integrati può sembrare una banalità ma in realtà cela una rottura psicologica tra l’uomo che è partito e quello che è arrivato.
La discussione si è poi spostata sulla relazione che esiste tra l’uomo e gli oggetti, in particolare, il pubblico di domenica sera ha condiviso la domanda che la dottoressa Valentina D’Angella si è posta per la sua tesi di laurea, ossia quali sono gli oggetti che i rifugiati si portano nel loro lungo viaggio e perché proprio quelli. Se in un primo momento si può pensare che chi affronta questo genere di viaggio porti con sé dei ricordi o oggetti con un particolare significato emotivo così non è. D’Angella spiega come il segreto dei rifugiati sia “viaggiare leggeri, sia a livello fisico che a livello emotivo”. Spesso, racconta, gli “oggetti della memoria” vengono inizialmente presi ma presto diventano un peso troppo ingombrante e vengono abbandonati lungo il tragitto o in mare. A volte lo stesso destino è rivolto ai documenti cosicché una volta approdati nella nuova terra ci sia la possibilità di ricominciare la propria vita da zero e senza tenere conto del passato.
Le relazioni tra le persone, tramite il linguaggio e tra gli oggetti devono, secondo il professor Salinari, portarci a sviluppare un senso di “appartenenza comune che dia vita ad una nuova ecologia che tenga insieme bìos e zoé.” Proprio al fine di esercitare il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente che lo circonda, il gruppo ColLabForArt ha dato luogo alla performance TOTEM, ossia un percorso sensoriale dove chiunque poteva essere messo a contatto con oggetti quotidiani in una nuova prospettiva.
La relazione tra oggetti, i nomi e i corpi è stata esplicitata nella visone del documentario “#387 scomparso nel Mediterraneo” diretto da Madelaine Leroyer e che racconta della ricerca delle identità dei corpi trovati dopo il naufragio del 18 aprile 2015 dove morirono circa 800 persone.
La Giornata del rifugiato di quest’anno ha avuto un sapore diverso dato anche dalle differenze che ci sono tra l’accoglienza riservata a chi arriva dall’Ucraina e chi in questi anni è arrivato dall’Africa subsahariana e dall’Asia. Tuttavia, la serata ha voluto rimarcare ciò che c’è oltre le differenze, non solo tra i diversi rifugiati ma anche tra chi rifugiato non è, perché, come ha detto Giorgio Sena “Tutti abbiamo bisogno di essere riconosciuti: tutti abbiamo bisogno di essere chiamati con il nostro nome.”