“Mia mamma si è ammalata perché è stata mandata a lavorare senza protezioni”

A parlare è Valentina Cera, 22 anni di Aosta. Da sabato scorso la mamma, operatrice sanitaria presso il Refuge Père Laurent di Aosta, è ricoverata all’Ospedale Parini. Alla rabbia di Valentina si contrappone il senso di impotenza del coordinatore della struttura Massimo Liffredo. "La nostra è una casa di riposo non una struttura sanitaria. Abbiamo bisogno di aiuto".
Ospizio Père Laurent
Società

“L’avevamo pregata di non andare più al lavoro, lei invece anche se aveva paura, ha continuato fino all’ultimo”. A parlare è Valentina Cera, 22 anni di Aosta. Da sabato scorso la mamma, operatrice sanitaria presso il Refuge Père Laurent di Aosta, è ricoverata all’Ospedale Parini.

“Lunedì 23 marzo aveva fatto il turno del pomeriggio e la sera è tornata a casa distrutta – racconta Valentina – non l’avevo mai vista così prima. Il giorno dopo è arrivata la febbre alta. E’ stata sottoposta al tampone, risultando positiva al virus. Sabato dopo essere svenuta è arrivato il ricovero”.

Per la ragazza non ci sono dubbi, la mamma è stata contagiata sul posto di lavoro.

“Alcune settimane fa, nella struttura ad una signora è arrivata la febbre altissima – racconta Valentina – Il Coordinatore ha detto a tutti gli operatori di non preoccuparsi perché era stata subito messa in isolamento. Dopo alcuni giorni altri utenti hanno avuto la febbre”.

La mamma di Valentina così come altri colleghi sono spaventati, ritengono che le misure adottate siano insufficienti a contenere il diffondersi del virus nella struttura.

“A differenza di altre strutture, le visite ai parenti sono state interrotte solo con l’ultimo decreto del 12 marzo – racconta Valentina – e nessuno degli operatori è stato dotato dei dispositivi di sicurezza necessari. Avevano solo delle mascherine chirurgiche, i guanti e come camici dei sacchi della spazzatura”. La mamma di Valentina tramite il marito riesce a recuperare alcune mascherine con il filtro. “Il coordinatore ha chiesto loro di continuare a lavorare, rassicurandoli che la situazione era sotto controllo. L’unica cosa che ha chiesto loro era di misurarsi la febbre prima di iniziare a lavorare, ma pazienti e oss usavano tutti lo stesso termometro”.

Oltre alla mamma di Valentina,  anche il papà è risultato positivo al virus. Ieri è stato trasportato in Pronto soccorso e poi rimandato a casa per le cure domiciliari. 

“Non è possibile mandare la gente così a lavorare senza protezioni” denuncia Valentina. “Io prego Dio che mia mamma guarisca, ma voglio che qualcuno paghi per gli errori commessi”.

Alla rabbia di Valentina si contrappone il senso di impotenza del coordinatore della struttura Massimo Liffredo. Al Père Laurent fino ad oggi sono stati registrati 15 decessi, di cui alcuni utenti positivi al Covid-19 e altri sospetti. Diverse le operatrici in malattia, perché positive o sospettate di esserlo, due quelle ricoverate. Solo negli ultimi giorni sono stati fatti dei tamponi a tappeto a tutti gli utenti.

“Il Père Laurent è una struttura socio assistenziale non sanitaria. – sottolinea Liffredo  – Siamo chiamati a gestire internamente dei pazienti Covid, che in ospedale non prendono, ma non abbiamo personale medico, infermieristico e assistenziale. Una nostra ospite è stata portata in ospedale, ma poi ci è stata rimandata indietro con una fornitura di ossigeno. La situazione è pesante e chiunque lavori in strutture come questa lo sa. Si lavora a proprio rischio e pericolo e dei propri familiari, si lavora sotto un forte carico di stress, si vede molta gente morire, si è impotenti, si è disarmati.” Dal Père Laurent arriva una richiesta di aiuto: “Spero che qualcuno ci aiuti, non è possibile affrontare questa cosa da soli. Un conto è lavare un anziano, cambiarlo e dargli da mangiare, un altro è curare dei pazienti Covid-19”.

Fino al 12 marzo la struttura è rimasta aperta alle visite, contingentate, dei parenti. “Abbiamo seguito l’ordinanza del Comune di Aosta e le indicazioni dell’ultimo Dpcm.” Con un centinaio di utenti e un orario di visite dalle 8 del mattino alle 8 di sera “la nostra struttura è stata come una piccola città fino a inizio marzo. Sapevamo che poteva succedere. Avevamo in quel periodo ancora parenti degli utenti che venivano da Bergamo e Milano in vacanza in Valle d’Aosta e passavano a salutare i propri cari. Non c’erano limitazioni, ma già allora ci chiedevamo se fossero opportune”.

Dopo lo stop alle visite – “una parte dei parenti ha capito, ma con un’altra parte è stato faticoso da spiegare” – sono arrivate le istruzioni su come gestire l’emergenza.

“Soltanto fra il 19 e 20 di marzo abbiamo ricevuto istruzioni su come comportarci, dopo che era scoppiato il caso di Pontey” racconta Liffredo, che ieri ha ricevuto la visita del gruppo di coordinamento territoriale, istituito dall’Unità di crisi. “Anche i dispositivi di protezione individuali ci sono stati consegnati intorno al 23 di marzo e prima abbiamo dovuto dar fondo ai nostri magazzini, consegnando le mascherine chirurgiche al personale, perché la Protezione civile ci ha informato che tutti i rifornimenti erano stati requisiti e che non avremmo potuto approvvigiornarci autonomamente. Abbiamo fatto tutto quanto erano nelle nostre possibilità”.

0 risposte

  1. Solidarietà alla famiglia e tutti gli operatori.
    Pare che ci sia attenzione da parte della corte dei conti….
    Qualcuno…. magari dovrà assumersi le responsabilità del caso!!
    In bocca al lupo!!

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