Ogni promessa è debito. Tempo fa avevamo fatto una sorta di aperitivo pedagogico su questa rubrica, dove scrivevo appunto dell’amore per i figli. Oggi proviamo a sfamarci, per capire quali forme di amore genitoriale siano nutrimento per la loro autostima e quali siano inutili, se non dannose. “Quindi ci stai dicendo che potremmo far del male ai nostri figli quando vogliamo loro bene? No dai, questo è troppo!”. Lo so, sembra assurdo, ma quando parliamo di educazione vale il principio ben enunciato un giorno da Roberto Gilardi, che ha scritto diversi libri su tematiche educative, che dice: “Nella vita non tutto ciò che ti fa star bene ti dà benessere, non tutto ciò che ti fa star male ti dà malessere”.
Sembra complesso, ma non lo è; c’è una scena nel film “Ray”, dove si racconta la vita del famoso cantante cieco statunitense Ray Charles, che racchiude tutto il cuore della mia riflessione: il piccolo Ray ha circa 6 anni, entra in casa ed inciampa nella sedia, sbatte la faccia a terra; nulla di rotto, ma scoppia a piangere e chiama la madre urlando in modo disperato. La madre è poco distante, in cucina, fa per muoversi ma poi si ferma, lo guarda e sceglie di non intervenire. La madre soffre in silenzio, ma non va a soccorrere il figlio che urla in lacrime. Passano alcuni minuti, Ray smette di piangere, si asciuga le lacrime e si alza. Gli altri suoi sensi sembrano improvvisamente amplificati, si avvicina al camino ma senza bruciarsi, sente un cavallo che passa lontano nella strada, trova un piccolo grillo in un angolo della stanza, lo prende, ci gioca e lo dona alla mamma “ti sento mamma, so che sei lì”. Lei lo abbraccia in lacrime. E’ non-amore quello della mamma, che lo lascia per parecchio tempo steso a terra, cieco, dolorante? O è la più grande forma di amore, quella centrata sul bene del figlio, quella che sa che spesso le persone si aiutano non aiutandole.
Noi genitori 2.0 sappiamo stare sulla soglia, come mamma-Charles? Siamo capaci di dosare il nostro amore per i figli nella giusta misura? O pensiamo che amarli significhi tutelarli dalla sofferenza, rimuovere eventuali ostacoli, addirittura anticipare bisogni per prevenire possibili dispiaceri (quando diciamo: “deve avere quella felpa di marca, quel cellulare, quelle scarpe griffate, o sarà l’unico della classe senza!”)
E’ indubbio, i figli hanno bisogno del nostro riconoscimento positivo, hanno bisogno di sentirsi valorizzati e approvati da noi, di sentirsi amati. Ma il riconoscimento è come l’acqua per le piante: le nutre, ma va data nella quantità giusta e nei tempi opportuni. Senz’acqua la pianta avvizzisce, ma con troppa può anche morire. Ora, di certo i nostri figli non muoiono materialmente per il troppo amore, ma qualche conseguenza negativa sul piano emotivo e psicologico, ahimè, la raccolgono! L’autostima nei figli non cresce a suon di “bravissimo, bellissimo, benissimo”; così al massimo miglioriamo le loro competenze grammaticali, perché i superlativi assoluti di certo non li sbaglieranno nella verifica di scuola. C’è un’idea distorta dell’autostima, come se fosse una funzione psicologica da gonfiare come un palloncino! Ma cos’è, allora? Ecco una definizione semplice e alla portata di tutti: l'autostima è l’idea che ognuno ha di sé, il grado di fiducia nel proprio valore, nelle proprie capacità e competenze.
Come facciamo a mantenerla alta nei nostri figli, mi chiederete voi? Prima cosa: togliamoci dalla testa questo ruolo di genitore – carrello elevatore; cerchiamo certo di aiutarli ad avere una buona stima di sé, ma mettiamo anche in conto fasi cicliche della vita, in cui l’autostima può scendere. In adolescenza, spesso, l’autostima corporea va un po’ giù, ma poi risale negli anni a venire. In questa fase è importante trasmettere modelli positivi sani: se le nostre figlie si confrontano solo con la Belen di turno, sarà difficile che si vedano belle. E, per favore, non dite loro “ma tu sei bellissima”, che è peggio! Lo so, lo dite col cuore e con amore (sempre lui, mannaggia!), ma fa più danno. Meglio stare in ascolto, sospendere giudizi, portare dati oggettivi e scientifici, far fare loro una vita sportiva sana, cercare i vestiti giusti perché si piacciano. E tollerare anche che non si piacciano. Questo è il vero amore. Accogliere anche i limiti dell’altro, senza negarli con una spruzzata di glassex, come se le nostre vite, e quelle dei nostri figli, dovessero essere sempre come vetri splendenti senza macchie!
L’autostima non si struttura in modo positivo solo grazie alle lodi degli altri: certo, sentirsi dire ogni tanto un “Bravo” aiuta. Ma se quel bravo è pertinente! Se nostro figlio di 6 anni fa un disegno orribile e gli diciamo “bravo amore, ma che bel disegno che hai fatto”, beh, ve lo dico onestamente, gli stiamo facendo del male. Non lo stiamo amando, anche se agiamo mossi dal cuore e dall’amore (ancora lui!).
Una delle cose più importanti, per i nostri figli, è sperimentare esperienze positive, in cui riescano, in cui si sentano capaci (o, come direbbero loro, in cui si sentano dei fighi!). Non vuole dire fare 2 sport agonistici contemporaneamente e dover essere sempre i primi! Anzi, l’aspettativa del figlio-campione è un’altra disfunzione! No, devono essere esperienze di benessere, di successo anche se semplici.
Soprattutto non possiamo farle noi per loro; anche se li amiamo, e proprio perché li amiamo, dobbiamo lasciarli camminare con le loro gambe. Dobbiamo lasciarli inciampare e farli rialzare da soli, perché è questo che consolida la loro autostima. Voler bene a un figlio significa volere il suo bene, che non sempre coincide con il nostro star bene. Lo sapete ormai, quello del genitore è il mestiere più difficile al mondo!
Per gli amici valdostani che volessero approfondire l’argomento, martedì 4 aprile alle 18.00 terrò l’incontro “Amore, troppo amore”, al Centro delle Famiglie di Aosta, viale Chabod 9. Siete tutti invitati!