Noi famiglie di ragazzi disabili, prima abbandonati, e ora di nuovo in lotta con la burocrazia

Pubblichiamo la segnalazione di una nostra lettrice sulla situazione delle famiglie di ragazzi disabili durante il lockdown e nella fase di ripartenza dei servizi.
I lettori di AostaSera
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Egregio Direttore,

stiamo tutti vivendo con difficoltà questi tempi di COVID19, ma vorrei aggiungere la mia voce per sollevare il velo su un tema di cui il largo pubblico non è a conoscenza.

Mi riferisco a quelle persone che sono state abbandonate a loro stesse dal governo.

Sono la mamma di una ragazza disabile che frequenta il C.E.A. di Chatillon.

Il centro è stato chiuso durante il lockdown per preservare la salute dei ragazzi, ma nulla è stato fatto per cercare di garantire un supporto fisico e psicologico sia ai diretti interessati che alle famiglie. Lodevole l’iniziativa della responsabile del centro, che ha creato un gruppo su WhatsApp per far sì che i  ragazzi potessero mettersi in contatto tra loro, almeno ogni tanto. Ma a parte questo, null’altro è stato messo in campo.

Oggi, fortunatamente, le attività del centro stanno riprendendo pur molto lentamente.

Per ora i ragazzi possono fare delle passeggiate all’esterno accompagnati dalle educatrici. Ma tale attività si svolge per due ore e solamente quando le condizioni meteo lo permettono.

Le attività all’interno non possono riprendere perché la struttura non è stata sanificata, cosa davvero assurda considerando che l’edificio è rimasto vuoto per lunghissime settimane.

In questi giorni ho ricevuto l’ennesima controprova che per noi genitori di ragazzi disabili la battaglia con la burocrazia non ha davvero mai fine.

Per partecipare alle attività di gruppo, i ragazzi devono effettuare un tampone (a garanzia della salute di tutti).

Ovviamente sono d’accordo, ma nel caso di mia figlia ho fin da subito fatto presente che il tampone non era praticabile a causa del suo vissuto (da cui discende peraltro la sua attuale condizione) e ho chiesto di poterle far fare il test sierologico.

Mi è stato risposto che l’assessorato delle politiche sociali non può richiedere tale test ma che dev’essere prescritto dal medico curante.

A questo punto ho chiamato la dottoressa che ha in cura mia figlia che però mi ha detto che come medici non possono prescrivere un test sierologico, ma che aveva contattato il direttore sanitario che le aveva detto che avrebbero potuto farlo.

Con rinnovata speranza mi sono quindi rivolta al CUP dove mi hanno detto che non possono prenotare tale esame in quanto non previsto dal loro programma. Un’infermiera (davvero gentile che ringrazio) ha fatto un giro di telefonate cercando di risolvere il mio problema, ma purtroppo sempre con esito negativo. Alle mie successive richieste mi è stato risposto che per l’esame sierologico si attende che una delibera venga approvata.

Intanto mia figlia non può fare l’esame e quindi non viene inserita nelle attività del C.E.A. (in quanto potenzialmente infetta) mentre chi di dovere continua a palleggiarsi la responsabilità (e a far rimbalzare noi da un ufficio all’altro).

Ho sentito di calciatori e politici e personaggi in vista che hanno effettuato in tempi brevissimi questo benedetto test sierologico.

Mi chiedo se esistano due pesi e due misure, se chi fa le leggi ed i regolamenti pensa anche alle minoranze silenziose, a tutte quelle famiglie che ogni giorno combattono e che meriterebbero, non dico un occhio di riguardo, ma almeno che la burocrazia non creasse montagne insuperabili di difficoltà.

Carlotta Boero

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