Basta essere belle? Sanremo ci porta indietro, ma noi guardiamo avanti

Dopo le polemiche che sono seguite alle parole di Amadeus sulle donne che “sanno stare un passo indietro al loro uomo” e hanno come unica qualità l’essere “belle, bellissime”, vi proponiamo questo mese la nostra riflessione su donne, cinema e tv.
orange is the new black
Le parole per dirlo

Lo affermava già nel 1991 Spike Lee: il solo modo per correggere la sotto-rappresentazione delle donne nel cinema è coinvolgere quest’ultime nel processo creativo. Ci vogliono più sceneggiatrici, produttrici, registe.

Oggi ci sono buoni segnali per credere che l’auspicio del regista afroamericano stia finalmente avverandosi, se si considera la produzione seriale e cinematografica degli ultimi anni, capace di rappresentare e accogliere gruppi sociali che fino a non molto tempo fa restavano ai margini. Nonostante la persistenza di evidenti e quotidiane forme di sessismo, banalizzazione della violenza e ipersessualizzazione delle donne nella loro rappresentazione sui media, qualcosa sta cambiando, soprattutto oltreoceano. Gli stereotipi, infatti, per quanto siano prodotti culturali estremamente pervasivi, sono anche evitabili se si mettono in campo precise scelte in ambito creativo e autoriale.

Il settore dell’intrattenimento rappresenta un importante facilitatore per l’inclusione delle minoranze e delle diversità in generale e può costituire il luogo in cui diventa davvero possibile contrastare i pregiudizi e gli stereotipi sulle donne. Più in particolare la televisione, medium che fra tutti rimane ancora il più trasversale in termini di pubblico, riveste un ruolo strategico per diffondere una cultura non discriminatoria in base al genere, proprio grazie al suo potere di proporre rappresentazioni di donne e uomini tanto realistiche quanto anticonformiste. Le nuove narrazioni possibili, oltre a scardinare gli stereotipi di genere, sono inoltre in grado di favorire mutamenti sociali già in atto, nonostante la considerevole battuta d’arresto nella progressione dei diritti civili operata da quella nuova ondata di sovranismo maschilista e conservatore interessato a riproporre immagini di una realtà storicamente segnata da disuguaglianze e asimmetrie di potere per le minoranze tutte.

La buona notizia è che ormai il discorso sulla relazione fra sessismo e media non è più unicamente oggetto di ricerca nell’ambito degli studi di genere, ma ha varcato i confini accademici diventando un’urgenza per le istituzioni (soprattutto nel quadro della lotta contro la violenza sulle donne) e un tema di discussione per l’opinione pubblica. I nuovi media audiovisivi sono stati in grado di interpretare produttivamente questa emergente necessità di raccontare in maniera diversa le donne. Le nuove piattaforme di streaming hanno così permesso la fruizione di tutta una programmazione incentrata non solo sul femminismo, ma anche sulle battaglie per i diritti civili, sulla discriminazione su base etnica, tv show a tematica LGBTI, serie nelle quali si affronta seriamente il fenomeno del body shaming e, in generale, contenuti sempre più inclusivi.

Le nuove produzioni delle piattaforme on line riescono a promuovere una visione pluralista e attenta al bilanciamento fra i generi proprio grazie alla loro politica di inclusione creativa, che ha saputo intercettare talenti femminili in grado di proporre una visione innovativa, potente, fuori dal coro. Capita così che alcuni di questi prodotti, il più delle volte non solo ideati, ma anche scritti e interpretati da autrici determinate e talentuose, diventino serie cult pluripremiate con milioni di spettatori.

Finalmente, alle donne appiattite da decenni di narrazioni androcentriche si sostituiscono personaggi femminili a tutto tondo, in ruoli finora appannaggio dei soli maschi (come in Orange is The New Black), e anche i personaggi maschili risultano spogliati da ogni stereotipo di genere (come in Unbelievable o in Crazy Ex Girlfriend). Emergono nuovi temi come la mascolinità tossica, la maternità surrogata, la fluidità sessuale, il carico mentale domestico, narrati senza cliché e pregiudizi (come in Workin’ Moms e The Letdown). Anche i numerosi prodotti coming-of-age come Sex education hanno potuto beneficiare di una tale libertà espressiva, una tal disinvoltura interpretativa che non c’è tabù o luogo comune che resista.

Aveva proprio ragione Spike Lee: la sensibilità ai problemi, la capacità di produrre idee, l’abilità di definire e strutturare in modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze sono caratteristiche attribuibili a tutti i generi. A coinvolgere le donne (e, più in generale, le minoranze) nel processo creativo ci guadagniamo tutti.

 

Tania Castellan

 

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