“A volte la vita manda dei segnali. Uno può anche non crederci, per carità, ma con il passare del tempo me ne sono convinto sempre di più. Ciò che mi è successo doveva far parte di un disegno più grande. Doveva avere senso. Significava qualcosa. Ecco, forse sono stato un po’ troppo egoista in passato e forse dovevo rallentare per vedere e vivere le cose con più calma”.
La vita del Dottor Cric, al secolo Piercarlo Lunardi, 58 anni, dipendente regionale, cambia il 12 agosto del 2013. Il destino lo investe letteralmente mentre sta scendendo da Cogne, in moto, dopo aver lavorato come speaker a una martze a pià.
Un incidente può cambiarti la vita
“Erano circa le 17, ero all’altezza del bivio di Ozein. Ho buttato l’occhio su quelli che scendevano, a destra, perché nella maggior parte dei casi sono loro che non guardano e si infilano e dunque volevo evitare che qualcuno mi cilindrasse. Invece questo veniva su da sinistra e quando l’ho visto era solo un puntino blu. Ho frenato di colpo. Beccato. Ho sentito la botta. Mi sono sentito in volo. Ho chiuso gli occhi per istinto e quando li ho riaperti mi sono trovato sull’asfalto. Non mi sentivo più parte della faccia e ho capito subito che c’era qualcosa di serio. Poi ho guardato d’istinto le gambe: la destra, all’altezza del ginocchio, era piegata trasversalmente rispetto all’altra. In maniera folle l’ho presa e rimessa al suo posto. E poi ho provato subito a muovere le dita dei piedi. Tutto funzionava. Forse, grazie a Dio, non sarei rimasto paralizzato”. Il pensiero successivo va alla gara per la quale si era così duramente allenato nel corso dei mesi. “Minchia il Tor. Ho spaccato le gambe e non faccio il Tor”.
Per il Tor des Géants, in effetti, non c’è più speranza. I due femori sono rotti, bisogna operare e utilizzare una placca. Nei successivi 40 giorni di ospedale, trascorsi sdraiato e immobile sul letto, e durante i seguenti tre mesi di carrozzina, un’idea rimasta nel cassetto per più di dieci anni trova finalmente lo spazio e il tempo per farsi largo nella sua testa.
“Un’idea è come un virus: una volta che s’impianta nella mente continua a crescere”
Lunardi, infatti, scopre i “clown dottori” nel lontano 2002. All’epoca lavorava presso l’ufficio stampa del Consiglio regionale della Valle d’Aosta. “Una delle finaliste della Donna dell’Anno, manifestazione organizzata proprio dal Consiglio Valle, era un giovane medico dell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, Giovanna Pezzullo, clown-ospedaliero di Soccorso Clown, in arte Dott.ssa Trombetta. “Facendo due chiacchiere ero rimasto molto colpito dalla sua attività e dal suo entusiasmo, mi ricordava quel film con Robin Williams…Patch Adams”. L’interesse però non si trasforma in azione e quella idea rimane lì, in attesa di tempi migliori, fino al 2011, quando navigando su Internet Lunardi s’imbatte in Missione Sorriso, associazione attiva dal 2004, “con lo scopo di intervenire a favore di persone ricoverate presso ospedali e/o altre strutture sociosanitarie, nonché in qualunque differente localizzazione anche non protetta, al fine di aiutare bambini e adulti ad affrontare situazioni di disagio, utilizzando strategie di distrazione e divertimento”.
Incuriosito dal fatto che anche in Valle d’Aosta esista un’associazione che si occupa della terapia del sorriso, decide di prendere contatto per capire se esistano dei corsi di formazione per diventare clown dottore. La risposta è negativa, perché in quel periodo non c’era nulla in partenza. L’appuntamento però è solo rimandato di un paio di anni, ed è proprio l’incidente a far scattare la scintilla nella testa di Lunardi.
Non solo clown: una formazione lunga due anni
A meno di un anno dall’incidente Lunardi torna a camminare, seppur con fatica, e decide di contattare nuovamente l’associazione Missione Sorriso. È la volta buona, da lì a breve partirà un nuovo ciclo di formazione. “A quel punto sono entrato in un mondo completamente nuovo, sconosciuto. Ho sostenuto un paio di colloqui individuali, di cui uno con la psicologa, per capire le motivazioni che mi avevano spinto ad essere lì e poi per capire se avessi le caratteristiche e le risorse per affrontare un percorso del genere, perché la prima cosa che diventa subito chiara è che non tutti possono diventare clown dottori. Pensavo che sarebbe stato facile per me, perché ho un carattere bonario, sono sempre pronto alla battuta e allo scherzo, ma in realtà non era così semplice. Non basta mettersi il naso rosso e sparare qualche battuta”.
La formazione è molto impegnativa: due fine settimana al mese di full immersion, per due anni. “Abbiamo avuto diversi docenti, chi specializzato in psicologia, chi in giocoleria, chi in teatro: tutte persone preparate e capaci. E poi c’erano gli altri corsisti, eravamo in quindici: mi sono trovato con persone che non conoscevo assolutamente, ognuno con la sua vita, proveniente da mondi diversi. Alcuni erano magari già vicini al volontariato, io proprio: fino a quel momento, la mia vita era completamente un’altra. E poi ero il più anziano.
Queste persone mi sono entrate dentro, grazie soprattutto ad un percorso che diventa quasi una terapia, per chi lo segue. Ho tirato fuori cose mie, molto personali: difetti, limiti, debolezze. Mi sono trovato a piangere, ma in maniera molto normale, di fronte a gente che non conoscevo ma che ho imparato a conoscere. È un viaggio dentro te stesso che ti shakera”.
Dottor Cric
A fine percorso era previsto un piccolo esame. “Abbiamo simulato un’entrata in camera, da soli. È stato emozionante. Poi ti danno il camice e il naso, che poi in realtà è la vera maschera, quella che ti permette di poter fare qualunque cosa. E infine il nome d’arte, anche se quello te lo scegli da solo e che riassume la tua vita, il tuo percorso. A me piace la fotografia, dunque subito ho pensato a “Dottor clic”, ma siccome sono anche sommelier, avevo pensato anche “Dottor bollicine”. Però poi ho pensato a qualcosa che richiamasse le mie difficoltà dopo l’incidente, e allora è venuto fuori “Dotto Cric”, visto che ero sempre “incriccato”. Anche se poi un paziente del Beauregard ha immaginato una motivazione che mi ha colpito molto, tanto da farla mia: “Dottor Cric perché con i suoi sorrisi lei risolleva l’umore alle persone, così come il cric solleva l’auto per il cambio gomme”. Oggi lo spiego così, quando me lo chiedono”.
Emozioni in corsia
Dopo tanta fatica arriva il momento di mettere in pratica quanto imparato e di entrare in azione. “Ogni volta che varchi la porta di una camera non sai cosa può succedere, chi troverai, quanto tempo ci resterai. La formazione ti permette di controllare le emozioni perché altrimenti diventa davvero difficile gestire alcune situazioni. Tutti si immaginano che un clown dottore debba far necessariamente ridere ma non è così. Forse questo vale per i bambini che senza dubbio hanno quella aspettativa ma con gli adulti basta un contatto, una parola, un sorriso, una stretta di mano, un abbraccio. E non importa che esse siano pazienti, parenti in visita o personale sanitario: noi siamo lì per lasciare qualcosa, anche solo un piccolissimo sostegno per tutti coloro i quali per qualche motivo si trovino in ospedale e abbiano bisogno di una mano”.
Non sempre, però, è così semplice instaurare un rapporto con le persone. “Succede spesso che inizialmente non vogliano interagire con noi. Una volta, in Hospice, una signora che stava assistendo il marito durante le sue ultime ore mi ha guardato e mi ha detto: ‘so che fate una bella cosa ma io proprio non me la sento’. Ci siamo abbracciati senza dire una parola, poi si è messa a piangere, ha cominciato a raccontarmi la sua storia e siamo andati fuori dalla stanza per lasciare tranquillo il marito. E poi, dopo, ogni volta che passavamo davanti alla loro stanza ci scambiavamo un sorriso”.
“Aiutare gli altri diventa un percorso di crescita personale”
I turni vengono svolti in coppia, il sabato, a rotazione sul Beauregard, l’Ospedale Parini e l’Hospice.“In coppia ti aiuti, ci sono sguardi e la complicità, utili per gestire nella maniera migliore ogni situazione”. Già, perché a volte posso esserci momenti davvero difficili da affrontare. “A me è capitato una volta un bambino che era lì in pediatria, in una stanza d’isolamento, una stanza dedicata. Quel giorno è stato un momento splendido. Abbiamo giocato un mucchio: eravamo in tre, perché c’era anche il Presidente Stefania Perego a darci man forte, visto che noi eravamo agli inizi e che quello era un caso ‘delicato’. Il bambino mi attaccava dei post-it addosso, scherzando sul mio difetto di essere un chiacchierone. “Stai zitto”, “parli troppo” e via dicendo. E abbiamo riso tantissimo insieme”. Dopo quindici giorni quel bambino è mancato. “Chiaramente ci rimani male, è dura, ma poi pensi che quel giorno, in quel momento, lui si è divertito ed è stato bene. E questo pensiero positivo deve prevalere su tutto”.
“Io tengo un quaderno, mio personale, oltre a quello che teniamo ufficialmente come gruppo e dove ci scriviamo a vicenda le note della giornata. Ecco, annoto lì tutte le mie impressioni personali, i nomi delle persone incontrate. Lì conservo tutti i post-it di quel bambino e ogni tanto me li vado a rileggere. Ci tengo tantissimo perché fanno parte di me e del mio percorso: è uno di quei momenti che ti rimangono impressi nella mente e che nessuno ti può portare via. Quei momenti che ti fanno crescere anche come persona. Diventare clown dottore e indossare il camice, ogni volta che posso, mi ha fatto un bene indescrivibile come persona e di riflesso nei rapporti con la mia famiglia e con gli amici. Ti poni in un’altra maniera, ti rende migliore anche nella vita normale. Questo è il grande messaggio per chi lo fa”.