Violenza sulle donne, la storia di Viola: “non volevo rimanere una vittima”

22 Ottobre 2020

C’è un prima e c’è un dopo. Chi subisce violenza in famiglia si rende conto quasi subito della cesura netta tra la vita di prima, che precede il primo gesto violento, e quella che, con fatica, si deve ricostruire dopo. “Prima hai una famiglia, un contesto che in teoria ti dovrebbe proteggere e sostenere e poi, di punto in bianco, non ce l’hai più e ti ritrovi da sola”.

A parlare è Viola, il nome è di fantasia, 53 anni di Aosta. Una vita regolare, un lavoro impiegatizio, amicizie, interessi, indipendenza economica. Fino al giorno in cui, in modo inaspettato, subisce un gesto violento da un uomo della sua famiglia. “In quel momento la tua vita crolla, si sgretolano tutte le certezze che avevi e ti ritrovi ferita, colpita e dolorante”.

A questa prima violenza, che la costringe ad andare al Pronto soccorso per farsi medicare, ne seguono altre: un secondo, poi un terzo e un quarto episodio. Un’escalation in pochi giorni. L’aggressore si giustifica e attribuisce a Viola la responsabilità. “Se te ne stavi zitta non dovevo farlo” le ripete continuamente.

Nella testa del suo aguzzino Viola avrebbe dovuto tacere, “rimanere al suo posto”, accettare passivamente le scelte e le decisioni che venivano prese in sua vece. Invece lei ha reagito passando al setaccio tutta la sua vita, i soprusi, le angherie subite in quanto donna di cui prima non si era accorta. “Quei gesti violenti hanno liberato la mia memoria, ho avvertito la necessità di dire tutto quello che in cinquant’anni non avevo mai detto, come un fiume che rompe le barriere”.

La violenza psicologica è subdola, si insinua nella testa della donna colpita e lo fa in un momento di grande fragilità emotiva, di stress e di paura. “Il dolore fisico dopo un po’ passa. Sono le parole a farti più male perché ti rimangono in testa, non riesci a dimenticarle come non scordi lo sguardo e l’espressione di chi ti sta picchiando”.

Non è passato molto tempo e Viola preferisce non rivelare troppi dettagli della sua storia, finita anche in un’aula di tribunale, per concentrarsi sul racconto delle sue emozioni e di ciò che ha provato. “Mi sono vergognata, per me era impossibile rivelare chi fosse l’autore, era inconcepibile denunciare, non potevo fare questo “torto” alla mia famiglia”. Per diverso tempo tace, soffre in silenzio, vive nella paura.

Poi finisce nuovamente in ospedale. La trattengono lì per alcune ore, è sotto shock. All’uscita trova il volantino del Centro donne contro la violenza. Lo prende, lo porta a casa. Per alcuni giorni riflette e poi trova il coraggio di chiamare. “Ho pensato che avrei chiamato per capire come tutelarmi, come evitare che succedesse ancora, a quali implicazioni economiche andavo incontro”.

Ha trovato accoglienza, ascolto, rispetto, nessun giudizio. “Soprattutto mi hanno creduta, cosa non scontata per me” racconta “Quando ho posato il telefono mi è arrivato un messaggio sul telefono, era una donna del centro, diceva che potevo chiamarla a qualsiasi ora. Per la prima volta non mi sono più sentita sola, ho pensato che qualcuno mi poteva aiutare”.

E così Viola decide di fidarsi e, la prima volta accompagnata da un’amica, si presenta in sede. Sarà la prima di tante visite perché le volontarie del Centro Donne, la Presidente Anna Ventriglia, la psicologa e la consulente legale la accompagneranno nel suo percorso di denuncia e di ricostruzione “All’inizio non volevo denunciare, loro hanno rispettato la mia scelta, mi hanno spiegato le opzioni che avevo davanti”. Accede ad alcuni colloqui con la psicologa, parla con l’avvocata del Centro. Si muove, avanza.

La paura non è mai andata via, anche se Viola non era convivente con il suo aggressore. “Non facevo più la stessa strada per andare al lavoro, guardavo fuori prima di uscire dal portone di casa, ero sempre in allerta. Perché hai sempre paura che ti possa rifare del male”.  Però, anche grazie alle volontarie, gradualmente capisce che deve denunciare. “Mi sono sentita presa per mano, mi hanno aiutata ad affrontare una cosa per volta, a mettere un passo dopo l’altro”. E nello stesso tempo capisce che deve essere lei a fare la scelta, a decidere quello che vuole veramente. “Anche se davanti a te in quel momento vedi solo macerie, devi scegliere se restare vittima o se recuperare il rispetto di te stessa”. In tre mesi, il tempo massimo entro cui è possibile querelare, Viola viene accompagnata dalle forze dell’ordine, fa la denuncia, la sua storia dopo mesi approda in tribunale.

Il momento del processo è delicato, pieno di dubbi. “Cosa ti succede, cosa ti chiedono, cosa dirà la gente: sono questi gli interrogativi. In quel periodo non mangiavo, dormivo a fatica, piangevo in continuazione, avevo paura, avevo continuamente paura”. Viola sceglie ancora di farsi aiutare dal Centro e inizia il suo percorso psicologico. “Da sola non ce la puoi fare, non hai strumenti per affrontare la violenza”. Una consapevolezza che sa tanto di vittoria.

Viola mi racconta la sua storia con grande commozione, ma senza lacrime. Da dietro la mascherina posso solo vedere i suoi occhi. E mi dicono che lei, tra le due opzioni, ha scelto.

 

Exit mobile version