Lettera ai Ministri: “avete risposte accettabili dai bambini?”

In occasione della Giornata della Memoria Licia Coppo propone questa lettera aperta sulle tante domande senza risposte sensate che i bambini esprimono sui recenti fatti di attualità.
Giornata della Memoria
Basta un po’ di educazione

Cari Ministri,

in questo 27 gennaio, giornata della memoria, sento l’urgenza di condividere con voi alcune riflessioni; mi permetto dunque questa missiva, chissà che il mio appello non vi arrivi.

Vorrei partire condividendo un breve racconto, che è l’inizio di una storia. Come sia finita, ahimè, si sa. È un po’ triste, preparatevi:

“Avevo 8 anni ed ero una bambina. Facevo parte di quella minoranza di cittadini italiani di religione ebraica che, di colpo, per le leggi razziali fasciste diventarono cittadini di serie B all’inizio, per poi arrivare a diventare di serie Z. 8 anni e, all’improvviso, mi dissero che non potevo più andare a scuola. Non avrei più potuto vedere le mie compagne, giocare con loro, né rivedere la mia maestra Bertani. Era l’estate del 1938. Ed è stato allora, quando mio padre cercò di spiegarmi le leggi razziali, che io ho strappato il cordone della mia infanzia”.

Anni fa, quando tenevo alcuni laboratori con i bambini in occasione della giornata della memoria, aprivo sempre con questo racconto autobiografico di Liliana Segre, superstite dell’olocausto, unica della sua famiglia a essere tornata viva del campo di Auschwitz. Su 776 bambini italiani deportati, solo 25 sono sopravvissuti. Liliana è una di quelle, matricola 75190 tatuata sull’avambraccio.

Ricordo il silenzio denso mentre leggevo, e soprattutto gli sguardi dei bambini stupefatti, increduli: dai loro occhi spalancati emergeva la domanda “come è possibile che di colpo un bambino non possa più andare a scuola, giocare con i suoi amici, vedere le sue maestre?”

A volte nel mio lavoro faccio laboratori come questi, sapete sono una pedagogista; no, non quelli che curano i piedi! No, quelli sono i podologi. Vabbè, ve la faccio più semplice, fate conto che sono un educatore. Ma sì, questa categoria professionale la conoscete, perlomeno la conosce bene il vostro attuale Ministro dell’Interno, che due anni fa aveva denigrato e trattato con spregio un collega educatore che lavorava per una onlus, dando assistenza ai senzatetto nella stazione di Milano; lo aveva filmato e deriso, chiedendogli pure con fare sardonico: “Ma che lavoro è? Ma perchè, ti pagano per questo?”

So che vi sembra impossibile, ma veniamo pagati per il nostro lavoro; il mio, per esempio, lo svolgo spesso nelle scuole, con i bambini o i ragazzi, conducendo laboratori di educazione socio-affettiva per educare alla convivenza civile, all’inclusione sociale, alla prevenzione del bullismo, laboratori per stimolare l’acquisizione di comportamenti prosociali. What? Aspettate mi spiego facendo parlare i manuali di psicologia: “il comportamento prosociale è caratterizzato da una preoccupazione per i diritti, i sentimenti e il benessere di altre persone; comprende il sentimento di empatia e di preoccupazione per gli altri, e tutti quei comportamenti che servono ad aiutare le persone che ci circondano”. Recentemente collaboro anche con Save The Children su un progetto che promuove il benessere scolastico: diamo voce ai bambini, alle loro idee per star bene a scuola e renderla migliore. Parliamo dei diritti dei bambini, leggiamo in classe la Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Bello, sulla carta. Poi, faccio i conti con la realtà.

Vi confido che ultimamente faccio proprio fatica a fare il mio lavoro. Non so più cosa rispondere ai bambini che a volte mi chiedono, ad esempio “Ma perché sono morte in mare tutte quelle persone? Perché nessuno le ha salvate?”. Ahimè, oggi c’è Internet, i bambini guardano i Tg, i bambini sanno. Loro lo hanno capito che quello non è un comportamento prosociale, e vi garantisco che è imbarazzante quando i bambini fanno domande scomode.

La prossima settimana devo tornare in classe e temo mi chiederanno perché a Castelnuovo di Porto dei bambini e dei ragazzi, che da due anni andavano a scuola, che erano nella squadra locale del calcio, che frequentavano i centri educativi della zona, siano spariti. Deportati. Come la Segre 80 anni fa. “Da domani Liliana non potrai più andare nella tua scuola”. Come una doccia fredda. Ecco, sono in difficoltà perché non so proprio come spiegarglielo. Voi avete delle risposte efficaci? Delle risposte accettabili per dei bambini? Perché, se c’è una cosa che ho imparato grazie al mio lavoro, è che quando un bambino trova insensata una risposta, allora è davvero insensata. Sapete, come quando per far stare in silenzio dei bambini che urlano, noi grandi ci mettiamo a urlare più forte. Se ci pensiamo seriamente un attimo, è una risposta insensata.

Ma siamo fatti così noi adulti, non sempre riusciamo a fare la cosa giusta.

Sapete qual è la fregatura? Che se per caso lo avevate fatto con la logica del #primaglitaliani, a quei bambini italiani di Castelnuovo, che da due anni andavano a scuola con Said, Ayubu e Aminata, avete fatto un gran torto. Li avete privati dei loro amici, dei loro compagni di banco, dei loro compagni di squadra. Perché i bambini a scuola costruiscono dei legami molto più importanti e significativi di quel che noi pensiamo. A scuola si fanno progetti di inclusione per i bambini disabili, a scuola si fanno progetti di intercultura per integrare i bambini di origine straniera. Integrarli, non “farli accettare”. Si cura la continuità tra un ordine di scuola ed un altro, se capita che un bambino debba trasferirsi, perché i genitori cambiano lavoro o casa, si fanno le feste di saluto, tutti scrivono una letterina da donare al compagno in partenza, o al contrario si fanno le feste di accoglienza quando si sa che arriva un bambino nuovo. Sono rituali importanti, non sono bambinate. La scuola cura questi pezzi. E voi, con queste azioni frettolose e mal gestite, rischiate di mandare tutto a pezzi. In questa storia il prezzo lo hanno pagano tutti, i deportati del Care e i compagni rimasti, che a scuola hanno subito quella che io chiamo una “amputazione relazionale”. Un trauma.

Cui prodest, mi chiedo? A chi giovano queste azioni? E se proprio questo trasferimento andava fatto (e su questo potremmo disquisire a lungo), ma non si poteva fare un po’ meglio? Pianificandolo con più calma? Magari pensando che permettere a quei minori di finire l’anno scolastico era il minimo accettabile?

Sapete qual’è la bella notizia, che ancora una volta ci fa rivivere la storia di 80 anni fa? È che, oggi come allora, di fronte alle ingiustizie si solleva la voce dei giusti. “I Giusti tra le Nazioni” sono quegli uomini che durante l’olocausto hanno salvato la vita agli ebrei, rischiando la loro. Oscar Shindler, Giorgio Perlasca, Dimitar Peshev, Anton Schmid, Giovanni Palatucci sono solo alcuni dei tanti. Sono quelli che hanno arginato le derive della storia. Anche oggi si sta sollevando la voce di quei cittadini che, senza saperlo, mettono in campo “comportamenti prosociali”. A Castelnuovo di Porto, notizia proprio di ieri, molti cittadini si sono attivati e resi disponibili ad accogliere le famiglie con minori, per evitare altri trasferimenti coatti; il famoso “bomber” Anszur Cissè, centravanti della Castelnuovese, sarà forse ospitato dalla famiglia di un compagno di squadra. Come 80 anni fa, numerose famiglie accolte (salvate?) da altre famiglie. C’è il sindaco che si sta prodigato per sperimentare quello che potrebbe diventare il primo modello di “accoglienza diffusa” sul territorio, certificata e vidimata dalla Prefettura.

Chissà se questo progetto andrà in porto, o verra bloccato anche lui? Ma se anche fosse, vi garantisco che la solidarietà sociale non si fermerà, e che per ogni porto chiuso, ci sarà la porta aperta di un Giusto.

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