Un attacco improvviso, feroce, violento. Inaspettato. Anche così si può presentare l’infezione da Covid-19. Anche se questa, per fortuna, è una storia con un lieto fine.
Viviana Casali è una donna forte, pragmatica. Dopo anni passati dietro una cattedra – da insegnante, da Vicepreside ma anche da Rsu – e la meritata pensione la sua vita si sposta al bancone del bar di proprietà nel frattempo passato in gestione al figlio Alberto Ammendolia.
Il bar in questione – il Café du Verger – è un locale noto e frequentato, nel pieno centro di Aosta, ora chiuso a chiave dalle ordinanze statali, come tutti gli altri.
Il Café du Verger però, ad un passo dalla nostra redazione, è sempre stato anche il punto di ritrovo di noi di AostaSera, un riferimento. Come il saluto di Viviana che all’uscita, da vera professoressa di Lettere, ci diceva sempre: “Mi raccomando, scrivete bene ragazzi!”.
Dal nulla Viviana si sente male. È Alberto a raccontarlo: “Tutto è iniziato il 3 marzo scorso, con un attacco di pressione alta nella notte – e l’ipertensione è uno tra i fattori più a rischio per lo sviluppo del Covid-19, ndr. –, ma senza nessun sintomo particolare. Mia madre allora ha misurato la pressione e l’ha regolata, e nei giorni successivi non è successo niente di particolare. Tra il 6 ed il 7 marzo non si sentiva bene, le è venuta la febbre oltre i 40 gradi”.
Da lì i contatti con il medico di famiglia, la guardia medica, e la diagnosi di semplice polmonite, con la prescrizione di antibiotici. Un atto previsto dal protocollo, non essendo Viviana mai stata nelle (al tempo) “zone rosse” né a contatto con potenziali positivi. Quindi, sempre da protocollo, nessun tampone.
L’attacco e la risalita
“Mercoledì 11 marzo mia madre continua a non stare bene – prosegue il figlio nel racconto –, chiede di andare a Pronto soccorso. Allora chiamiamo il 118 e la portano al triage in tenda. Qui le fanno le lastre, i tamponi e la ricoverano nel reparto infetti”. Il risultato del tampone arriva quasi 48 ore dopo, e l’esito è positivo.
Viviana sta male, il virus morde. Il ricovero è immediato: “Lo stesso 11 marzo è stata ricoverata, e sabato 14 marzo è stata messa in coma indotto per migliorare la sua ventilazione – spiega ancora Alberto –, perché prima aveva il casco. È stata tenuta in coma indotto dal 14 a 24 marzo, poi pian piano è stata svegliata, le hanno fatto una tracheotomia”.
Non senza momenti di preoccupazione: “Nel frattempo è stata dimessa da Terapia intensiva. Mentre era in coma i medici hanno provato a risvegliarla una volta, dopo cinque giorni, ma non ha retto. Lunedì finalmente ho potuto parlarle al telefono, le è stata messa una valvolina che le permette di mangiare, bere e di parlare”.
Viviana è una donna forte, pragmatica. Alberto racconta sorridendo le prime parole che la madre gli ha rivolto da quel lontano 14 marzo: “Mi ha chiesto come stavo, dov’ero e se fuori dall’ospedale le attività erano sempre tutte chiuse”.
Alberto non cerca polemiche, cerca di capire. E cerca di capire come il Covid-19 abbia colpito con tale violenza: “Non ho capito perché ci sono voluti sette giorni per farle un tampone – prosegue –, finché non l’abbiamo portata in ospedale ‘grigia’. Avrà dato tre colpi di tosse in tutto, non ha avuto nessuna malattia precedente, non fuma e la sua capacità polmonare era arrivata solo al 30%”.
L’uscita dal tunnel
Ciò che ha spaventato Alberto è la difficoltà a ricevere comunicazioni, nel mezzo della tempesta sanitaria che l’emergenza Coronavirus ha sollevato.
“La settimana scorsa mi è stato comunicato che mia madre è guarita, i due tamponi sono risultati negativi, e che può finalmente tornare a casa. Io penso che non avesse senso, in quattro giorni, per le cifre nazionali, è praticamente passata dai pazienti in Terapia intensiva ai guariti ma lei non era consapevole neanche di dove fosse”.
Poi, una certezza: “Finalmente, l’unica volta che ho parlato con il direttore del reparto Covid – prosegue – mi è stata data una prognosi di dieci giorni per toglierle la tracheotomia, la cannula e per svincolarla dalla respirazione artificiale perché ad oggi la saturazione dell’ossigeno non è ancora sua al 100%. Lei ora è una di quelli che stanno meglio, dovrebbe essere trasferita nel reparto ‘Covid 2’, e poi ci vorranno mesi di riabilitazione respiratoria”.
I dubbi, ed il domani
“Tutto bene, mamma migliora sempre più!”, racconta oggi Alberto.
Oggi tutto è diverso: “Ora è in Pneumotorace 2 e posso andare a trovarla dalle 18 alle 20 ed ho scoperto che non le hanno modificato la cannula della tracheotomia, e semplicemente non si spiegano come lei riesca a parlare, non dovrebbe. In ogni caso oggi i medici decidono se rimuovere o meno la tracheotomia”.
Anche se qualche cosa gli sfugge: “Io sono stato messo in quarantena obbligatoria, ed ho naturalmente rispettato il mio dovere civico. Mi dà da pensare però che la malattia di mia madre era già in corso da più di due settimane, quindi da febbraio, e a me sarebbero quindi mancati pochi giorni. Invece me ne sono stati imposti altri 15 in quarantena, fino al 29 marzo”.
Ma non solo: “A me non è mai stato fatto un tampone, fossi stato un ‘portatore sano’ avrei avuto forse il diritto di saperlo, anche per i miei amici, le persone che frequento, i clienti del bar”.
Un lavoro che manca, come a noi manca il Verger. E viceversa: “Mi mancate, ragazzi”, dice Alberto.
Adesso il peggio è alle spalle, ma c’è anche un “qui e ora”: “Vorrei fare un immenso ringraziamento al personale di Terapia intensiva, loro mi chiamavano costantemente per dirmi se lei stava bene o stava male. Sicuramente mia madre non potrà stare a contatto col pubblico ancora per molto tempo, ma è stato bello vedere quante persone mi chiedessero di lei, di come sta. A volte esco in terrazzo e mi chiedono notizie sulla sua salute”.
Perché Viviana è una donna forte, pragmatica. E questo lascia il segno. Più del Covid-19.
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“Forte, pragmatica…” e io aggiungo anche con una gran fortuna, che non tutti possono purtroppo di dire di aver avuto… Una notizia non così andrebbe pubblicata, pensate a come si sentiranno, leggendola, i parenti di chi non c’è più e non perchè i congiunti non fossero nè forti nè pragmatici…
Dipende dal concetto di “fortuna”. Pensi a come si sente chi è positivo e ha fatto magari una degenza tranquilla, senza sussulti, senza ospedalizzazione.
Secondo me è una bella storia, e pure di speranza. L’addizione “se muori sei debole” la sta facendo Lei, non di certo io in quanto scritto.
Poi un articolo può piacere o meno, ci manca.
Io credo che le storie a lieto fine siano sempre una cosa buona da leggere, evidentemente abbiamo sensibilità diverse.
È normale.
Saluti.