“A volte ti senti davvero ‘in prima linea’”: l’esperienza di un medico nella tenda Covid-19

La dottoressa Chiara Lina Orlando, in servizio al Dipartimento d’emergenza del “Parini”, passata lei stessa per la malattia, racconta perché la seconda ondata di casi del nuovo Coronavirus presenti più d’una preoccupazione.
La dottoressa Chiara Lina Orlando.
Cronaca

L’avevamo lasciata all’inizio di aprile, quando  – guarita dal Covid-19, dopo 17 giorni in camera da letto con febbre, tosse e una “cefalea, davvero importante” – era tornata in ospedale, dove lavora come medico dell’emergenza. Ritrovata oggi, Chiara Lina Orlando del suo caso non racconta conseguenze importanti (“appena tornata a lavorare mi sono sentita molto stanca e avevo perso peso”, ma non molto altro e soprattutto “nemmeno sul piano psicologico” ci sono stati grossi strascichi), però ciò che vede nella tenda nel cortile del “Parini”, in cui accoglie e visita ogni giorno i colpiti dal nuovo Coronavirus, la trova decisamente pensierosa.

I numeri di oggi sono peggiori di quelli di marzo, sia come totale dei positivi, sia come occupazione dei posti letto in ospedale (e siamo scrupolosi nel ricoverare solo i pazienti per cui non è possibile un’alternativa domiciliare). – puntualizza – Oltretutto, se nella prima ondata c’erano state delle previsioni sul momento di picco, oggi non ve n’è idea. Andiamo quindi avanti affrontando il flusso di casi, spesso simultanei (ieri abbiamo applicato cinque caschi cpap per l’ossigenazione, il giorno prima con cinque persone in visita ne sono arrivate altre tre praticamente assieme), ma alla primavera manca ancora del tempo. A volte ti senti davvero come ‘in prima linea’”.

La dottoressa non nasconde che ad essere cambiato, dai giorni in cui virus si abbatté per la prima volta sulla Valle d’Aosta, è il fatto che ora gli operatori sanitari avvertono “demotivazione”. “Vedere che”, da parte delle persone, “non c’è sempre comprensione per il nostro lavoro – continua – e che viene meno uno spirito di comunità è pesante. Alcuni colleghi in altre realtà sono arrivati ad avere il Pronto soccorso chiuso anche per 5 ore, che è un dramma. Ad Aosta non siamo per ora giunti a tanto, ma la gente non ha idea cosa significherebbe, per esempio, dover mandare ad Ivrea un infartuato che si presentasse in quel frangente, sperando oltretutto che quell’ospedale non si trovi nella stessa situazione e che il paziente non precipiti”.

Certo, tra i valori capitalizzati nell’esperienza sviluppata con il nuovo Coronavirus durante la scorsa primavera vi è l’incremento, nell’ambito della struttura sanitaria, della consapevolezza del problema rappresentato dal contagio del personale. “Al Dipartimento di Emergenza, Rianimazione e Anestesia dell’Usl Valle d’Aosta, – afferma la dottoressa Orlando – la disponibilità di dispositivi di protezione individuale e la possibilità di sottoporsi ad accertamenti sul sospetto contagio non sono un problema”. All’insorgere di un sintomo come un mal di gola, l’operatore può essere sottoposto ad un test, “basta richiederlo alla propria caposala o al primario”.

Tra l’altro, testimoniando le risultanze di questa accresciuta attenzione, il medico dice di due “screening” sierologici sul personale del Dipartimento, condotti alla fine della scorsa ondata (tra maggio e giugno) e poche settimane fa, alle prime battute della nuova, dai risultati che “hanno dato sorprese” sull’infezione e le sue dinamiche successive. “Si è infatti scoperto che alcuni colleghi quarantenati non hanno sviluppato anticorpi, – sottolinea – mentre altri li avevano maturati ma non sono più presenti ed altri ancora che, come me, a distanza di sei mesi dalla malattia, ne sono ancora provvisti”.

Un’eterogeneità che rilancia le incertezze sulla “copertura” di cui godrebbe chi è stato infetto da Covid-19 e ne è guarito. Non solo non sembra duratura, ma la sua instabilità mette in discussione qualsiasi “immunità di gregge”. Anche per questo, i malati che continuano ad arrivare nella tenda davanti all’ospedale, mentre tanti valdostani non sembrano percepire la situazione (né la natura del “lockdown” locale, di cui l’Ordine dei medici chiede da oggi a gran voce l’estensione a tutta Italia), sono motivo di apprensione per chi lavora in sanità. In prima linea i colpi dell’avversario, un virus subdolo di cui la scienza non ha ancora conoscenza totale, rimbombano sordi tutto il giorno. E anche se “sono dalla parte di chi vive le ripercussioni economiche di questa situazione, perché non è scontato che non ce ne possano essere per i lavoratori dipendenti”, per Chiara e i suoi colleghi è difficile non sentirli.

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