Per uno di quegli strani scherzi del destino – o forse non si tratta di uno scherzo, chissà – Mauro Forghieri ci ha lasciato, a ottantasette anni, pochissimi giorni dopo il disvelamento della 499P, con la quale la Ferrari andrà, dopo cinquant’anni, alla caccia dell’iride Endurance e della 24 Ore di Le Mans. Alle prove di durata appartiene, infatti, una delle gioie più grandi, tra le tantissime: l’arrivo in parata ai primi tre posti della 330 P4 – una macchina bellissima ancora oggi – alla 24 Ore di Daytona nel 1967.
Forghieri è da considerarsi come un genio assoluto, in una cerchia ristretta composta da Colin Chapman, Adrian Newey e pochissimi altri nel mondo delle corse. Figlio d’arte, potremmo dire. Il padre Reclus è un autentico self made man, una carriera da operaio a meccanico di spicco nella Casa di Maranello. Mauro Forghieri si laurea in Ingegneria meccanica a Bologna. Entra anch’egli in Ferrari e, nel 1961, il battesimo del fuoco. Il Drake azzera la dirigenza, compresi Carlo Chiti e Giotto Bizzarrini e scommette sul giovanissimo Mauro, facendone il capo del reparto tecnico per le vetture impegnate nelle competizioni.
Uno dei leggendari colpi di intuito del Patron. Forghieri si dimostra da subito un innovatore. Nel 1968 per primo colloca un alettone posteriore per migliorare l’aderenza: da decenni, ormai, lo vediamo su tutte le monoposto. A seguire, il motore a dodici cilindri contrapposti “piatto”, impropriamente chiamato boxer. A metà degli anni settanta del secolo scorso, la 312 T, con il cambio trasversale, poi i motori turbocompressi che danno a Maranello i titoli iridati costruttori 1982 e 1983.
Ma sono solo alcune delle soluzioni ideate nei due periodi in cui Forghieri è Direttore tecnico della Scuderia, dal 1962 al 1971 e dal 1973 al 1984. Curioso può apparire lo iato tra le due lunghe parentesi, in realtà esiste un motivo ben preciso. Ferrari deve lasciare temporaneamente il timone per motivi di salute e il suo ingegnere prediletto viene destinato a diversi incarichi. La progettazione della macchina di Formula 1 è affidata ad altri tecnici. Ne esce una monoposto convenzionale, conservativa, che porta risultati disastrosi. Rimessosi completamente, Ferrari non esita a richiamare Forghieri, il quale in fretta e furia modifica la vettura mettendo le basi per la rinascita del 1974, quando Clay Regazzoni si gioca il Mondiale fino all’ultima gara a Watkins Glen contro Fittipaldi e la sua McLaren.
Furia era il suo soprannome, per l’immensa energia che sprigionava e la sua capacità di coinvolgere e motivare i collaboratori. Leggendarie le liti con il Commendatore: lo stesso Forghieri affermava di non ricordare tutte le occasioni in cui si dimise e venne ovviamente riassunto. Due emiliani veraci che si confrontavano e si stimavamo, direi provavano sincero affetto reciproco. Forghieri lavora poi in Lamborghini, progettando un propulsore efficacissimo che si ferma ad un passo dall’essere adottato dalla McLaren di Ayrton Senna.
A me piace ricordarlo in quella che possiamo ritenere la sua ultima fatica, bene illustrata da un film documentario di qualche anno fa, che riguardava il restauro della 312 B del 1970. Forghieri aveva già superato gli ottant’anni, ma immutati apparivano, dalle riprese, quel temperamento, quella competenza, quella genialità che gli valsero il rammentato nick name Furia. Con il senno di poi, fu il suo testamento spirituale, l’officina e la pista come terreni di elezione.