“Le attività investigative”, sulla presenza del crimine organizzato in Valle d’Aosta, “sono sempre state fatte”. Tant’è che nell’ordinanza del Gip di Torino che ha disposto le sedici misure cautelari alla base dell’Operazione Geenna, sulla presenza stabile di un locale di ‘ndrangheta nella regione (con rapporti “peculiari” con il mondo politico), “si fa mente di alcune intercettazioni, addirittura pregresse”, in cui “effettivamente c’era questa già consapevolezza dell’esistenza di un sodalizio” tra le montagne.
Lo ha raccontato, parlando oggi dell’attività svolta negli ultimi dodici mesi, il colonnello Emanuele Caminada, comandante del Gruppo Aosta dei Carabinieri, il cui Reparto operativo ha condotto l’indagine coordinata dalla Dda di Torino. Alla domanda sul perché, malgrado vari elementi negli anni (non ultima la presenza di una casa da gioco, appetibile alle organizzazioni criminali quale “lavanderia” di capitali illeciti) sembrassero delineare i contorni della piovra in Valle, si sia arrivati solo lo scorso 23 gennaio a degli arresti, l’ufficiale ha spiegato che il problema non è tanto “sapere e conoscere” il fenomeno a livello locale, ma “trovare gli elementi che portano effettivamente alla commissione del reato” di carattere mafioso.
“Nell’arco del tempo, che cosa è cambiato profondamente? – ha continuato Caminada, affiancato dal tenente colonnello Maurizio Pinardi, comandante dei Nuclei Investigativo ed Informativo del Gruppo, entrambi impegnati nell’inchiesta che ha fatto finire in manette anche gli amministratori comunali Nicola Prettico e Monica Carcea e il consigliere regionale, oggi sospeso, Marco Sorbara – La sensibilità da parte degli organi inquirenti”. Entrando nel merito della spiegazione, il colonnello ha quindi citato l’indagine “Minotauro”, condotta sempre a Torino nel 2011.
Quell’inchiesta viene considerata “una pietra miliare per quanto riguarda il contrasto alla criminalità organizzata in Piemonte”, ma “all’inizio qualcuno leggeva queste intercettazioni e queste riunioni di persone anziane, come degli amici del bar che passano il tempo ricordando vecchie storie e, quindi, quasi in maniera nostalgica”. Tornando in Valle, nell’operazione “Lenzuolo”, di fine anni novanta, “si parlava chiaramente di Capodecina, di rappresentanti locali, però qual è stato il problema? Non avevamo trovato il reato fine”.
A quei tempi, è proseguito il ragionamento del comandante Caminada, “bisognava trovare l’estorsione, il danneggiamento finalizzato all’esistenza di quel sodalizio. Quello è stato veramente difficile. Perché? Perché in un ambiente omertoso era difficile poter evidenziare il reato associativo fine”. Oggi, “questo è stato superato grazie anche alla giurisprudenza consolidata”, che “condanna anche il semplice sodalizio nel momento in cui ha dei presupposti ben determinati”. Insomma, sapere non bastava, bisognava arrivare oltre.