Lo scorso 12 febbraio era stato condannato, in primo grado, a 4 anni e 6 mesi di carcere (e 220mila euro di multa) per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’arresto, al traforo del Monte Bianco, era scattato ritenendolo un “collaboratore” del conducente del furgone fermato con tredici migranti irregolari a bordo. Il 44enne pakistano Ghazanfar Hayat, da parte sua, ha sempre sostenuto di essere stato un semplice passeggero di quel “trasporto” e i giudici della quarta sezione della Corte d’appello di Torino ieri, venerdì 24 luglio, hanno dato credito alla sua tesi, rovesciando il verdetto del Tribunale di Aosta, con pronuncia di assoluzione dell’imputato.
Hayat, che fino ad oggi è rimasto sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di dimora in Toscana, era difeso dall’avvocato Filippo Vaccino. Sul Ford Transit controllato dalla Polizia di frontiera il 7 ottobre 2019, con un 34enne pakistano al volante, erano stati trovati nove profughi nell’abitacolo e quattro stipati nel vano bagagli. Hayat, regolarmente presente in Italia, sedeva accanto al connazionale al volante ed era stato considerato – per le evidenze raccolte al momento del fermo – coinvolto nella gestione di quel “viaggio”, su un furgone noleggiato per l’occasione. Era così finito in manette ed accusato in concorso con l’autista di essere un “passeur”, con l’aggravante di aver messo a rischio l’incolumità dei trasportati (tra i quali anche un minorenne).
Sin dall’interrogatorio di garanzia si era proclamato estraneo all’imputazione, sostenendo di avere pagato 250 euro per salire a bordo (dopo aver saputo da parenti a Bologna che quel mezzo sarebbe partito da Bergamo), perché intenzionato a recarsi in Francia, in visita alla famiglia del fratello defunto alla fine di agosto. Il tempo considerevole trascorso dalla morte al viaggio, la mancata precisione sulla località di destinazione (fornita agli agenti come Parigi, mentre il parente indicato risultava deceduto a Rochefort, ben più distante), l’assenza di prove sull’effettiva parentela con lo scomparso e la cifra considerata esorbitante per quello spostamento, rispetto ad un mezzo di trasporto regolare (utilizzabile da una persona con permesso di soggiorno), sono tra gli elementi per cui – si legge nella sentenza del Tribunale di Aosta – i giudici del collegio avevano visto nelle affermazioni dell’uomo un tentativo di celare le proprie responsabilità.
All’udienza di ieri, giunta dopo l’appello al verdetto di primo grado, il difensore di Hayat ha rilanciato la tesi, producendo, tra l’altro, un documento pakistano attestante il legame parentale tra l’imputato e lo scomparso. Sono state fornite alla Corte anche le buste paga di Hayat, a sostegno della motivazione che non aveva intrapreso prima lo spostamento perché impossibilitato ad ottenere la possibilità di assentarsi dal lavoro nell’imminenza del decesso. Evidenze che hanno convinto i giudici a cancellare la condanna e la sanzione irrogata nel precedente grado di giudizio.