Nessuno ha ucciso i Beatles

“Ho ucciso i Beatles” ha aperto la Saison Culturelle dando voce ai tomenti e deliri di Mark Chapman ma, soprattutto, alla bravura di Sarah Jane Morris, Pierluigi Iorio ed il Solis String Quartet.
Ho ucciso i Beatles
Cultura

Perché Mark David Chapman ha ucciso John Lennon davanti al Dakota Building di New York, quell’8 dicembre 1980? Più di quarant’anni sono passati, ed ancora milioni di persone e fan non riescono a trovare una risposta definitiva. Follia, deliri di onnipotenza, traumi infantili, vendetta. I tormenti di Chapman vengono ripercorsi in “Ho ucciso i Beatles”, lo spettacolo che ha segnato il primo appuntamento con la Saison Culturelle 2021 in maniera profonda per la bravura degli interpreti.

Perché questi tormenti sono stati resi alla perfezione da Pierluigi Iorio (che è anche il regista dell’opera di Stefano Valanzuolo), seduto sulla sua sedia o in piedi, rievocando dal carcere il momento dell’uccisione di Lennon (arrivata sulle note di Across the Universe), o i motivi, o il suo pentimento finale. Tormenti che avevano il costante e sincronico sottofondo musicale del Solis String Quartet e, soprattutto, erano incastonati in quadri musicali che avevano la voce potente di Sarah Jane Morris.

“Dovevo farlo. Loro erano come volevo essere io: famoso”. Questa è la spiegazione che Chapman/Iorio dà in apertura, spinto dall’amico immaginario Holden Caulfied (anche richiamato nella scenografia, con i campi di segale che sono un chiaro rimando al Catcher in the rye, il titolo originale del Giovane Holden) e dal diavolo (mentre i quattro di Liverpool sono sempre nominati come angeli) in persona ad andare davanti al Dakota Building. E perché proprio Lennon? Perché lui, andandosene, aveva davvero ucciso i Beatles.

Quando entra Sarah Jane Morris sulle note di Lucy in the sky with diamonds, la scena si riempie: la sua fisicità, i suoi gesti, la sua voce gospel/blues saturano l’atmosfera e scandiscono il ritmo. Un ritmo che il Solis String Quartet plasma a piacimento, reinterpretando ed arrangiando in maniera eclettica i pezzi dei Fab Four e cambiandone le atmosfere, come nello “spinning ‘round” di The fool on the hill (arrivato dopo Come together) che cresce e, da idilliaco, si trasforma in folle e rabbioso. Specchio della mente di Chapman, che evoca anche Charles Manson e che, con la voce della Morris, chiede finalmente quell’aiuto (Help!) che non era riuscito a chiedere prima alla propria famiglia.

Perché quello del rapporto col padre e della paternità, in generale, è un tema difficile: “Odiavo mio padre, ho ucciso Lennon per sentirmi orfano”, dice Iorio. E non a caso parte Hey Jude, scritta da Paul McCartney per Julian Lennon. C’è Yesterday, c’è una Helter Skelter magnifica per l’arrangiamento che porta alla confessione: “L’ho fatto per me, per sentirmi importante”. Giunto alla consapevolezza – ed una consapevolezza che trascende tutti i motivi presunti “nobili” che Chapman si dava – è il momento del pentimento e di Somewhere over the rainbow e di The long and winding road.

Lennon è morto, ma la sua vera voce registrata risuona nel Teatro Splendor e ci conduce fino a Imagine ed al messaggio cantato e urlato da Sarah Jane Morris nella coda – “no war in my name, just peace in my name” – ed al bis con All you need is love, cantato dal pubblico anche senza musica. Perché ci sono alcune cose che Mark David Chapman non ha potuto uccidere: un immaginario, una storia, un sogno.

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