Da dieci sono diventati dodici, quindici, diciotto, venti, ventidue fino ad arrivare a ventisette. Un limite che per fortuna non si è superato. “E’ stato come uno tsunami”. Passata l’onda, improvvisamente i posti letto della rianimazione dell’Ospedale Parini sono tornati a venti, quindici fino agli otto di ieri.
Dietro questi numeri si nasconde la guerra che in tanti hanno ingaggiato contro il covid-19. Una battaglia che il rianimatore Stefano Santoro, 38 anni di Aosta, dice con convinzione “noi vinceremo, perché io come i miei colleghi siamo entrati in campo non per giocare ma per vincere”. E, guardando il calo dei ricoveri in rianimazione, qualche punto contro questo nemico invisibile è stato messo messo a segno.”Per tanti motivi la situazione va meglio, anche grazie alla gente che sta a casa” spiega Stefano “Non c’è stato solo l’impegno dei sanitari, ma anche quello ad esempio degli idraulici che sono arrivati una volta tutti bardati alle 3 del mattino per riparare un tubo che perdeva”.
Ricorda Stefano le prime settimane, le più dure, quando lui e i suoi colleghi hanno assistito impotenti a quanto stava accadendo. “Inizialmente sembrava che morissero tutti”. Chi è finito in rianimazione ha avuto bisogno di cure intensive “molto importanti” e lunghi ricoveri. “Questa patologia ci ha imposto di diventare estremamente pazienti, di sposare l’arte del non fare, mentre come rianimatori difficilmente riusciamo a tenere le mani in tasca. Siamo delle figure pro reattive, abituate a risolvere in poco tempo situazioni delicate”.
L’attesa però in alcuni casi ha ripagato, e il primo paziente dimesso dalla rianimazione rimarrà per Stefano un ricordo indelebile. “E’ stata la mia punta di diamante” racconta con la voce spezzata il medico “Un paziente giovane, sanissimo, un ciclista, un amante della montagna, le cui condizioni si sono aggravate poco tempo dopo aver contratto il virus”. E’ stato proprio il rianimatore a doverlo intubare. “Sono coscienti in quel momento, poco prima di addormentarsi mi ha chiesto di poter salutare la sua famiglia, ma purtroppo non c’era il tempo”. Stefano si prende a cuore il caso. “E’ come se fosse diventato mio papà. Tutti i giorni arrivavo e andavo a vedere come stava, mi imputavo se c’era qualcosa che non andava per rimetterlo a posto.”
La storia è a lieto fine. Ad un certo punto l’uomo ha reagito alle cure. “Ha deciso che doveva guarire e per tutti noi è stata una bella giornata. Ho comunicato alla moglie, perché me lo sentivo, che anche se non era ancora fuori pericolo ce l’avrebbe fatta”. E così è stato.
“E’ stato il primo paziente che abbiamo provato a svegliare. Da pelle d’oca. Il primo dimesso. L’ho accompagnato io fuori dal reparto e anche nei giorni seguenti sono andato a trovarlo”. Il rianimatore è diventato per l’uomo un punto di riferimento. “Non so cosa sia successo, mi cercava con gli occhi, mi ha sempre cercato. Ha significato tantissimo a livello personale”. L’uomo ha voluto presente Stefano nella prima videochiamata alla famiglia quando ha potuto nuovamente parlare. “Abbiamo chiacchierato tutti insieme con grande emozione”. Anche oggi che l’uomo sta proseguendo con la sua riabilitazione i contatti non mancano. “L’altro giorno ci è arrivata una foto di lui che passeggia tranquillo con la sua bombola di ossigeno. E’ stata un’emozione bellissima, che ci aiuta ad andare avanti”.
Mentre fuori dall’ospedale quasi tutto si fermava, dentro le mura del “Parini” il lavoro proseguiva con ritmi massacranti, ridisegnando la professione medica.
A cominciare dalla mancanza del contatto con le famiglie. “Come medici ci manca il poter guardare negli occhi i familiari, stringere loro la mano, abbracciarli. E’ qualcosa che ti strappa il cuore dal petto. Hai bisogno di un ritorno umano, non solo quando vengono a mancare, ma anche quando stanno meglio, perché a questi pazienti vogliamo bene, ci impegniamo a curarli come fossero i nostri papà, mamme, nonni, sorelle o fratelli”.
Le comunicazioni al momento passano tutte dal telefono. “Sono delle telefonate bellissime decise dalla nostra caposala”. In alcuni casi le famiglie hanno chiesto e ottenuto di poter videochiamare il familiare anche se in coma farmacologica. “I familiari giocano un ruolo importantissimo perché tranquillizzano i pazienti, non li fanno sentire soli.” In questi momenti a tenere la mano ai pazienti ci sono gli infermieri. “Quando i nostri pazienti vengono a mancare, ho visto più volte infermieri commuoversi perché il rapporto che hanno con loro è enorme. Soffrono tanto perché ci mettono l’anima, rispetto a noi medici hanno un rapporto diverso con il paziente, un diverso amore. E’ capitato di abbracciarci tutti nonostante le tute”.
Sono anche i dispositivi di sicurezza, le famose tute da astronauta o da sommozzatore, ad aver cambiato profondamente la professione.
“Una volta che ti cali dentro questa tuta entri in una dimensione parallela, perché si crea un involucro di separazione fra te e l’ambiente esterno. Fanno venire meno tante percezioni utili per visitare il paziente”. Gli odori, il tatto ma soprattutto l’udito “usiamo in continuazione l’ecografo perché non possiamo più auscultare il suono dell’aria dei polmoni.”. Sei ore senza andare in bagno, senza bere, senza potersi grattare, sei ore in cui diventa difficile anche sedersi perché si scivola da ogni parte. Sei ore che lasciano il segno: ulcere sul naso provocate dalle maschere, i guanti che tolgono la pelle dalle mani “non riesci neanche più a tenere in mano la forchetta”. Uno stress enorme. “Ho visto colleghi svenire e altri scappare fuori dal reparto perché non riuscivamo più a respirare”.
Nonostante i turni massacranti, le ferite, non solo quelle fisiche ma anche quelle dell’anima, per Stefano gli operatori sanitari non sono degli eroi. “Facciamo lo stesso lavoro che compivano prima che iniziasse questa emergenza. Siamo persone normali. Vogliamo meno statue ora, da essere abbattute nel futuro ”.
E’ negli abbracci della sua bambina Martina, nei sorrisi di sua moglie Francesca, nei piccoli gesti che la sua famiglia gli ha riservato in questi giorni, come le creme spalmate sulle ferite lasciate da maschere e guanti, che Stefano in queste settimane è riuscito a far pace con se stesso e a contenere il senso di impotenza. Come tanti suoi colleghi il rianimatore ha scelto, nonostante la paura, di restare con la sua famiglia. “Assieme ai pazienti e ai loro cari, sono loro, le nostre famiglie, i veri eroi”. Perché quegli abbracci che scaldano il cuore di Stefano sono stati a volte accompagnati dalla paura di un possibile contagio. “Inesorabilmente ti senti portatore di questa malattia quando arrivi a casa. All’inizio ho cercato di proteggerli provando a indossare la mascherina chirurgica, ma con mia figlia di 2 anni e mezzo è stato tragico. Pensava fossi arrabbiato con lei perché non la prendevo in braccio e non la baciavo. Ho dovuto toglierla perché piangeva”.
La famiglia gioca un ruolo importante di sostegno. “Mi aiuta a tenere un equilibrio mentale. Cerco di non gravare su di loro più di tanto, ma non sempre ci riesco.”
Riesce a stento a trattenere le lacrime il 38enne quando rammenta il giorno in cui il suo reparto ha contato cinque morti “Tre in sei ore mentre ero di turno io. La sera non sono riuscito a prendere sonno. Mia moglie è stata fantastica, mi ha accudito, mi ha ascoltato, ha cercato di tenermi su di morale per permettermi di rientrare nell’ultimo girone dell’inferno”.
A sostenere gli operatori sanitari sono stati in queste settimane anche gli psicologi: “Sono disponibilissimi, mi hanno aiutato non solo a livello personale m anche nelle comunicazioni con le famiglie”. E poi al fianco di medici, infermieri e Oss c’è tanta gente comune che ha voluto loro dimostrare affetto e vicinanza attraverso torte fatte in casa e pasti cucinati. “Nella saletta relax messa a disposizione dalla Direzione abbiamo appeso i tanti disegni arrivati dai bambini. Tutte le volte che entro cerco alcuni di questi disegni che sembrano quelli fatti da mia figlia e vado a vedere se ve ne sono di nuovi. Non perché abbiamo bisogno di sentirci dire grazie, ma perché questi messaggi, a volte sgrammaticati, sono bellissimi”. E mai come ora c’è bisogno di circondarsi di bellezza.