Quasi un mese fa, il 5 marzo, si riscontravano in Valle d’Aosta i primi due casi di persone positive al Covid19. In 30 giorni esatti, la situazione si è drammaticamente evoluta come nel resto d’Italia, fino al pesante bollettino di ieri, che fa segnare 74 decessi, 716 casi positivi di cui 69 ricoverati in ospedale nei reparti Covid e 25 in terapia intensiva, oltre a 2.702 persone in isolamento.
Il personale sanitario, impegnato 24 ore su 24 per fare fronte alla grande emergenza, è stremato, oltre che fortemente colpito a sua volta dal virus (attualmente sono 63 le persone contagiate). Ma non è la grande stanchezza, ciò che turba le notti di chi lavora in prima linea contro il Coronavirus, quanto la rabbia per il comportamento di chi è costretto restare a casa e che spesso non rispetta le misure previste.
“Abbiamo anche noi voglia di vivere”
Luca Nicoletti, 46 anni, infermiere prima in endoscopia digestiva, poi spostato in dialisi, dove aveva già lavorato e dove si occupa anche di dializzati affetti da Covid, racconta con queste parole affidate ai social ciò che lui, come molti colleghi, sta vivendo. “Sono stanco. Ho sonno e sono a pezzi: vorrei scrivere qualcosa per chiedervi la cortesia di non credere che stia tutto finendo. Non siamo per un niente a buon punto! Ma non trovo il modo per farlo senza condire il mio discorso di male parole, sproloqui, insulti e moccoli. Perché mi vengono in mente solo male parole e insulti? Perché anche oggi, quando sono uscito dall’ospedale, ho visto un casino di gente in giro. Chi col cane. Chi col bambino. Chi in bici. Chi a correre. Addirittura una famiglia che conosco di vista: la madre col bambino e il padre col cane, a farsi la loro bella passeggiata. Belli vicini, come ogni famiglia del Mulino Bianco che si rispetti. Belli vicini, come se fosse tutto normale. Li ho visti fermarsi a chiacchierare con altri. Belli vicini, senza mascherine, abbracciarsi e tirarsi pacche sulle spalle. Come se non fosse mai successo niente”.
La rabbia fa spazio al racconto. “Non avete la più pallida idea di quello che sta succedendo là dentro, in quell’ospedale. Noi stessi non sappiamo cosa succede al di fuori del nostro minuscolo microcosmo, che è l’unità all’interno della quale lavoriamo. Isolati dal resto del mondo, sappiamo appena quello che succede ai nostri pazienti da un giorno all’altro. Possiamo solo immaginarlo quando, all’uscita, incontriamo un o una collega che chi racconta di un ragazzo giovane in condizioni disperate. O di una giovane mamma (o di un giovane papà) che se ne sta andando. Da solo. Senza poter dare un ultimo saluto ai suoi figli che, a loro volta, si troveranno orfani di un genitore nel giro di qualche giorno o di qualche ora. Ogni giorno tutto cambia. Rapidamente e inesorabilmente. Ogni mattina un reparto viene smantellato e riconvertito a Covid Unit”.
E poi, fuori dall’ospedale, c’è la loro vita. “Abbiamo anche noi voglia di vivere, in salute, con le nostre famiglie. Il più a lungo e il meglio possibile”, scrive Nicoletti. “Facciamo l’impossibile per lasciare quel piccolo bastardo invisibile fuori dalla porta di casa. Ci priviamo del piacere e della gioia dell’abbraccio dei nostri figli o di un attimo di intimità con i nostri compagni o coniugi. Anche noi sognano le tanto meritate ferie, che chissà quando (e se) potremo goderci, con i nostri bambini. Anche noi ci caghiamo in mano, e ci caghiamo sempre più, man mano che vediamo ammalarsi e morire gente sempre più giovane”.
Il pensiero corre veloce fino ad una richiesta, personale ma condivisa con tanti colleghi. “Lasciateci lavorare come sappiamo e come stiamo imparando a fare. Il più seriamente e serenamente possibile, senza ulteriori pensieri. Sì, avete letto bene: “come stiamo imparando a fare”, perché questa è una situazione diversa dal solito, nuova, particolare e ancora tanto sconosciuta. Viviamo alla giornata, senza sapere cosa ci riserverà il domani. E credetemi, non è bello. Sappiamo che ci ammaleremo anche noi, molto probabilmente, per quanto cerchiamo di evitarlo. E, sapere che è solo questione di tempo, non ci fa stare bene. Ogni mattina, quando passiamo in rassegna davanti alla termocamera all’ingresso dell’ospedale, non potete immaginare che sollievo proviamo a sapere che potremo recarci al lavoro. Non tanto perché andremo a lavorare: in situazioni del genere penso che ne faremmo tutti volentieri a meno. Tiriamo un sospiro di sollievo perché questo significa che un altro giorno avrà un inizio e una fine. In salute. Forse. E proprio quel giorno potrebbe essere la volta buona che incontriamo il piccolo bastardo. Sapete, basta una disattenzione, o un piccolo ma banale incidente. Un occhiale che si appanna, l’istinto di toglierlo e toccarsi inavvertitamente. Il naso che prude, la mascherina che si sposta perché l’istinto di toccarsi ha preso il sopravvento. E ogni sera, quando arriviamo a casa, sapendoci “sani per oggi” ci pentiamo di quell’abbraccio o di quella coccola non data a nostro figlio una decina di giorni fa. E che nemmeno oggi saremo in grado di regalargli, perché oggi stiamo bene, ma non è detto che siamo sani. Voi avete solo una cosa da fare: stare a casa e non rompere i coglioni”.
“Non chiamateci eroi, facciamo solo il nostro lavoro”
Non meno duro e intenso è il racconto di Aline Dalbard, 30 anni di Pollein, che dopo un mese di turni in terapia intensiva, ha deciso che la misura era colma. “Sarebbe bello che ognuno di noi agisse con il buon senso. Lo faccia per sé stesso, per la sua famiglia e per noi che siamo qui in prima linea “in trincea”, come la chiamiamo noi la corsia, a combattere per tutti voi. Non sto a descrivere le sensazioni che proviamo noi infermieri e i nostri colleghi medici, OSS, tecnici, e i vari operatori a dover lavorare per ore e ore sotto questi tutoni, camici, calzari, occhiali, visiere, cuffie, guanti, mascherine senza poter bere un sorso di acqua e senza fare la pipì. Non sono nemmeno qui a farci dare degli eroi perché non lo siamo: stiamo solo facendo il nostro lavoro durante una pandemia, durante una chiara emergenza sanitaria. Stiamo solo facendo il lavoro che abbiamo scelto di fare perché lo amiamo ed è proprio per questo che vorremmo farlo bene e nelle migliori condizioni possibili”.
Anche per lei, arrivano parole forti per chi non rispetta le regole. “Voi avete ancora il coraggio di lamentarvi perché siete stufi di stare a casa? Chissà come mai io non sono ancora andata una sola volta a fare la spesa dall’8 marzo, nonostante sia una sanitaria ed ho pure la corsia preferenziale. Forse perché quando esco dall’ospedale prendo la macchina per evitare di stare fuori il più tempo possibile – solitamente mi reco al lavoro a piedi quasi tutto l’anno – e vado subito a chiudermi in casa per evitare qualunque contatto con qualunque persona per la paura di infettare qualcuno. Perché chi ce lo dice che noi sanitari non siamo tutti positivi? Chi ci ha fatto un tampone? Non riusciamo nemmeno a farlo in un tempo decente a chi sta male figuriamoci a chi sta bene. Ma continuiamo pure a tagliare sulla Sanità. A tagliare talmente tanto da dover risparmiare sui DPI in alcuni reparti piuttosto che altri quando qualunque operatore è a rischio in egual misura. E poi quando qualcuno decide di aiutarci costruendoli per filo e per segno non accettiamo questo prezioso gesto di volontariato in questo momento di Emergenza per non so quale motivo. Ciò che interessa a me è che se dall’alto vengono prese decisioni assurde, per quanto mi riguarda, dal basso sarebbe bello che ognuno di noi agisca con il buon senso”.
Lei, nel frattempo, ha deciso di devolvere il suo gettone di presenza da consigliere comunale (a Pollein, ndr) di tutto l’anno passato nei confronti di chi in questo momento ne ha più bisogno. “Vinceremo, tutti insieme, ma stando ognuno a casa propria, vinceremo”.
“Solo se sei così egoista non riesci a capire”
Sulla stessa linea d’onda anche Francine Massariol, 42 anni, infermiera in rianimazione, che si sfoga ugualmente su Facebook. “Vorrei sapere se è cambiato qualcosa nelle disposizioni di isolamento, perché stamattina tornando dall’ospedale dove lavoro, ho visto tante persone in giro, a fare una passeggiata con i figli (si, i figli, perché erano due), gente che correva, gente che aveva il sacchettino del supermercato (semi vuoto), e ovviamente quelli con i cani, che escono 2, 3 volte al giorno”.
La voglia di uscire, ammette, è forte per tutti. “Dopo 8, 10 ore di lavoro, dentro i tutoni, respirando dentro la mascherina, morta dal caldo e della tensione, in una rianimazione piena e cupa, sempre al buio, quando esco vorrei tanto, ma tanto, credetemi, correre e respirare aria pulita, prendere un po’ di sole, e a volte guardo in torno e penso, se vado da sola qui sotto, che male c’è? Ma poi penso che come me tante persone si sacrificano a rispettare le regole, e mi sento a disaggio al solo pensiero che io possa avere questo diritto mentre tanti cercano di rispettare quello che è stato chiesto a tutti”.
Il sacrificio di alcuni, però può essere vanificato dal comportamento di altri. “Questa pandemia ha dimostrato il quanto siamo una società egoista, perché solo se sei così egoista non riesci capire. E aggiungo? Dove sono i controlli, perché veramente qui non passa mai nessuno. Sono diventata io la vecchia sul balcone, e i vecchi invece, sono di sotto a passeggiare”.
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credo che un idea ce la siamo fatta anche perchè non c’è un momento che non ci viene ricordato e anche a sproposito….messaggi, articoli che non fanno altro che infondere paura….mah….
mi sa che il pazzo inglese che ha parlato di immunità di gregge e uno dei pochi che ha detto la verità senza tanti fronzoli…