In condizioni di norma, l’intestino lavora in modo non percepibile alla coscienza. Il suo “farsi sentire” con spasmi, gonfiore addominale o altri sgradevoli sintomi (classificati fra i Disturbi Gastrointestinali Funzionali – FGID), denuncia un disordine che tende spesso a cronicizzare e creare circoli viziosi, alimentando i disturbi stessi e compromettendo lo stato generale.
Studi moderni evidenziano l’utilità di alcune specie botaniche, già presenti nella nostra tradizione, o introdotte da quelle di altri continenti, nel mantenere il benessere intestinale, controllando il tono delle pareti viscerali e l’equilibrio delle flore che le popolano: ne sono un esempio i frutti di Amla, Haritaki e Bhibitaki, i rizomi di Zenzero, i capolini di Camomilla, i frutti di Finocchio e la corteccia di Tabebuia.
Negli ultimi decenni la fisiologia ha acquisito nuove conoscenze sull’intestino, che evidenziano la complessità di quest’organo e ne estendono le mansioni ben oltre i processi digestivi di trasformazione e assimilazione dei nutrienti.
La presenza nella sua tonaca di milioni di cellule nervose, la cui attività è vicendevolmente integrata a quella del sistema nervoso centrale, ma in parte anche indipendente da esso, ha suggerito locuzioni come “secondo cervello” o, meglio, Sistema Gastroenterico Diffuso. A conferma di ciò, è ormai accertato che l’epitelio intestinale produce e secerne neurotrasmettitori come la serotonina (qui concentrata in una quota corporea superiore al 95%), oltre ad ormoni, aspetti che nel loro insieme avvallano la convinzione che l’intestino svolga il ruolo proprio di una struttura neuroendocrina e immunitaria.
Caratteristica di questo complesso insieme di attività intestinali è il loro compiersi in “silenzio", eludendo la coscienza: in condizioni fisiologiche, infatti, nulla di quanto accade in ambito addominale è avvertito a livello consapevole.
Ma a volte l’intestino è indotto a “farsi sentire” a causa di fattori come lo stress, gli errori alimentari, l’utilizzo di alcuni farmaci, i postumi d’infezioni gastrointestinali, le modificazioni ormonali, ecc., elementi che compromettono i requisiti del suo ambiente, modificando in particolare le condizioni e il tono delle sue pareti e la qualità e quantità delle flore che le popolano.
L’immediata sensazione di disagio che ne deriva si traduce in un ampio ventaglio di disturbi, modulato sulla base di caratteristiche individuali. Fattori comuni e ricorrenti sono il dolore addominale e gli spasmi, la sensazione di tensione con gonfiore e flatulenza, le modificazioni dell’alvo con tendenza a stitichezza, diarrea, o la loro alternanza, oltre a una distorta percezione viscerale che comporta, ad esempio, la sensazione di non avere l’intestino completamente svuotato, o un’esaltata risposta all’ingestione di cibo.
Queste diverse manifestazioni, variabili per tono e intensità, ma sostanzialmente analoghe, convergono nella classificazione dei Disturbi Gastrointestinali Funzionali (FGID – Functional Gastrointestinal Diseases), il cui esempio più noto è rappresentato dalla Sindrome dell’intestino irritabile (IBS), comunemente definita “colon irritabile” o “colite” in modo improprio, poiché vede coinvolta anche la porzione intestinale del tenue.
Caratteristica comune ai differenti quadri di FGID è l’innesco e l’incremento di complesse risposte biologiche, che si ripercuotono negativamente sulle relazioni tra sistema nervoso centrale ed enterico e sulle interazioni fra intestino e sistema immunitario: ciò dà luogo a fenomeni infiammatori cronici, caratterizzati da acutizzazione della sensibilità viscerale, amplificazione del dolore e aumento della permeabilità intestinale.
Per correggere tali condizioni e interrompere i circoli viziosi che condizionando pesantemente lo stato generale, è possibile avvalersi di specie officinali già apprezzate dalle etnofarmacopee e dalla tradizione europea: le loro proprietà, confermate dalla ricerca moderna, risultano particolarmente calzanti per affrontare il complesso panorama dei FGID.
Triphala è una preparazione ayurvedica composta dalla polpa dei frutti di Amla (Phyllanthus emblica), Haritaki (Terminalia chebula) e Bhibitaki (Terminalia bellirica). Costituisce un caposaldo della medicina tradizionale indiana, che la prescrive come tonico, regolatore delle funzioni digestive e drenante intestinale e vascolare.
L’attività dei singoli componenti e del loro insieme è stata oggetto di numerose ricerche, che hanno verificato la validità di questa formulazione, in cui converge un complesso insieme di azioni enteroprotettive, articolate in aspetti antiossidanti, favorenti la rigenerazione delle mucose, riequilibranti delle loro secrezioni di muco e batteriostatici (Helicobacter pylori).
Zenzero (Zingiber officinale) è noto come rimedio utile nel trattamento sintomatico di nausea e vomito (da gravidanza, “mal d’auto”, chemioterapia, ecc.) e come digestivo, indicato nei disturbi con sensazione di pesantezza o con crampi viscerali.
Le sue radici, oltre ad agire come antiossidanti e antinfiammatorie delle mucose gastriche e intestinali, correggono l’eccitabilità delle pareti del digerente, interferendo con alcuni neurotrasmettitori coinvolti nella percezione degli stimoli dolorosi, nel vomito ed anche nella regolazione di tono e umore.
Camomilla (Matricaria recutita), già apprezzata dalla tradizione nella cura di diverse problematiche gastrointestinali, unisce alle proprietà sedative e spasmolitiche della muscolatura addominale attività utili nel riequilibrio del microambiente intestinale; inibisce in particolare Helicobacter pylori ed anche altri agenti, implicati nelle infezioni che favoriscono l’IBS.
I frutti di Finocchio (Foeniculum vulgare) sono ben conosciuti come antifermentativi, specifici nella correzione di aerofagia, meteorismo e tensioni viscerali, incluse le coliche neonatali. Mentre l’azione spasmolitica gastrointestinale, oltre che uterina e respiratoria, è da tempo confermata, studi più recenti sottolineano l’attività antiossidante e antinfiammatoria, a protezione della mucosa gastroenterica.
Tabebuia (Tabebuia avellanedae) compare con diversi nomi (Tahibo, Lapacho o Pau d’arco) nelle etnofarmacopee sudamericane, che segnalano l’uso della sua corteccia come rimedio elettivo delle infezioni batteriche, virali e micotiche sia intestinali, che respiratorie, genitourinarie e cutanee, oltre che come antinfiammatorio connettivale e articolare.
Ricerche moderne ne hanno sostanzialmente avvalorato gli usi tradizionali. In particolare, in sede gastroenterica, esercita un’inibizione selettiva sui ceppi intestinali patogeni, tutelando Bifidobacteri e Lactobacilli; è inoltre attiva nei confronti di Helicobacter pylori e Candida albicans. Aggiunge a ciò proprietà antiflogistiche e stimolanti la riparazione degli epiteli lesi.
Lina Suglia Erborista, Fitopreparatore, Consulente aziendale
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