Toponomastica valdostana e aostana, le riflessioni di un lettore

"Perché finora il termine "Quartier de la Doire" non è mai comparso a fianco del toponimo in italiano...Apriamo la nostra mente, e scriviamo le cose in DUE lingue, perché tutte e due hanno diritto e libertà di esistere".
I lettori di Aostasera, Società

Vorrei con queste righe condividere la mia opinione con quella dei lettori riguardo al dibattito recente sulla toponomastica valdostana e aostana in particolare.

Leggendo ho subito pensato che l’accento sarebbe dovuto essere posto sul perché finora il termine "Quartier de la Doire" non sia mai comparso a fianco del toponimo in italiano, e non sul fatto che sia infine comparso. Senza dubbio, è ingiusto che quello in italiano scompaia, a maggior ragione in questo caso particolare per il fatto che il quartiere sia nato in epoca "italofona", com’è stato correttamente sottolineato. Questo, tuttavia, a mio modo di vedere, non è il problema principale. Non credo sia corretto affermare che Parigi si sia aperta una filiale ai piedi del Gran Paradiso, oppure che la Dora sia stata confusa con la Senna, perché la lingua francese da secoli non è più da intendersi come la lingua della Francia, e chiunque si senta di esprimere la propria opinione a riguardo su un giornale, soprattutto se costui è valdostano, non deve trascurare questo fatto.

Occorre piuttosto interrogarsi sul perché in Valle d’Aosta il francese stenti così tanto a trovare il posto che gli spetta di diritto. Molti Valdostani sono impacciati nell’usarlo (ma molti non lo sono affatto), spesso lo identificano con gli antipatici vicini d’oltralpe, dimenticando che prima di Parigi ci sono la Savoia e il Vallese, regioni a cui assomigliamo in maniera sorprendente e con le quali abbiamo condiviso la nostra storia. Essi hanno perso da tempo il loro particolarismo, strappato ora dal centralismo, ora dal federalismo, lo rimpiangono oggi e ci ascoltano parlare in patois pensando al fatto che ormai poco hanno di diretto con la loro cultura originale. Oltre alla strumentalizzazione politica, resta il fatto che i Valdostani non identificano più il francese come la lingua che può contraddistinguerli, aprire loro nuovi e immensi orizzonti, ben al di là di quelli che può offrire loro l’italiano, al contrario, dimenticano la propria storia. Ben vengano i quartiers de la Doire, si ripristini senz’altro Antonio Gramsci (però suggerirei di interrogarci sul perché la via che collega il palazzo regionale al cuore del centro storico, sia stata intitolata a un personaggio lontano dalla Valle d’Aosta in tutti i sensi, per non parlare di Losanna e Piave, mentre Chabod, Gal e Carrel dormicchiano in periferia, una strana pecca nel meraviglioso, a mio modesto parere, stradario aostano), e spariscano invece le innumerevoli targhe scorrette, i "viale – avenue Ginevra", i "via – rue Parigi", e magari soprattutto anche i "Bonifacio Festaz" (vissuto due secoli prima che Leopardi cominciasse a usare l’italiano per comporre), di cui nessuno si è mai lamentato, ma Antoine Gramsci, ahimè, stride davvero tanto.

Non si mescoli più superficialmente, e questo mi sento di chiederlo con più intensità, la francofonia in Valle d’Aosta con l’Unità d’Italia, perché già lo hanno fatto i fascisti nel Ventennio, per poi ripetere tristemente il tutto in occasione del 150° anniversario dell’Unità, guastando, a mio avviso ingiustamente, il 450° compleanno al francese in Valle d’Aosta. Il regno d’Italia è cominciato qui, e chi non parlava italiano allora, non è nemico, come si usava pensare, e l’ha imparato subito dopo. Dovremmo essere fieri di essere francofoni. La regione dove viviamo è quella in cui per la prima volta al mondo un’amministrazione ha adottato il francese come lingua ufficiale, prima della Francia stessa. Noi siamo autonomi anche in questo senso: possiamo parlare francese a modo nostro, come fanno i belgi, o come i ticinesi fanno con l’italiano. Abbiamo la libertà di dire "nonante-trois" invece di "quatre-vingt-treize", se vogliamo, perché la storia lo permette, così come i cantoni della Romandia, come noi, dicono "syndic" e non "maire" e "septante, octante, nonante", così come possiamo permetterci di dare ai nostri figli un nome francese, di nominare giustamente le città italiane in francese (non capisco perché non bisognerebbe farlo scrivendo in francese, come si scrive "Lione", "Digione" o "Parigi" scrivendo in italiano – tra l’altro, in francese si dice "Bologne", non "Boulogne"), di chiamare "bataille de reines" quello che i nostri cugini savoiardi e vallesani chiamano "combat de vaches". Dobbiamo sentirci parte di una lingua che ha veicolato la nostra cultura per secoli, prima di affidarcela per vederla sempre più dimenticata. Il fatto che due partiti stiano candidando due politici con un nome francese invece che patoisant vi farà temere che l’apertura di una filiale del Palais Bourbon al palazzo regionale sia imminente? Se la visione è questa, allora difendiamoci seriamente, e che si scriva "Martinè" (con l’accento grave!), o meglio ancora "Martinetto", come talvolta s’incontra come retaggio di forzature. Si è citato l’Alto Adige, ma si è omesso di evidenziare che loro non parlano tedesco, bensì nella vita quotidiana e come madrelingua è usato un dialetto che sta al tedesco standard come il nostro patois sta alla rive gauche, e tra Bolzano e Hannover ci sono prima Innsbruck e l’Austria, come per noi ci sono Ginevra, Lione e la Borgogna (il tutto linguisticamente parlando). Le menti illuminate del dopoguerra ci hanno affidato un modello di regione bilingue che in Alto Adige o nelle zone slovenofone del Friuli Venezia Giulia si sognano. Noi abbiamo avuto l’occasione di creare una realtà senza tensioni, e l’abbiamo persa per vari altri motivi.

Apriamo la nostra mente, e scriviamo le cose in DUE lingue, perché tutte e due hanno diritto e libertà di esistere in questa terra, e che quella arrivata dopo rispetti quella che è stata padrona di casa per così tanto tempo prima, in cambio la nuova arrivata continuerà a veicolare la nuova realtà cisalpina, che nessuna Francia, né tantomeno nessuna Svizzera ci avrebbero mai concesso. Perché siamo noi che in Italia abbiamo questa ricchezza, noi e nessun altro, e ci sono voluti secoli per crearla così originale, interessante tanto da essere invidiata. Né Parigi, né l’uso esclusivo dell’italiano rappresentano una soluzione: entrambe porterebbero ad un impoverimento culturale, storico e linguistico.
 

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