Dall’altra parte della barricata si condanna l’assenza. Certo noi ci siamo, siamo presenti come numeri e spettatori, ma questa presenza costante di cui siamo attori e registi esiste grazie, soprattutto, a una mancanza che non siamo capaci di colmare. Guardiamo da lontano come Vasilij Grigor’evič Zajcev, senza il disappunto della consapevolezza di combattere un nemico, senza il minimo rumore che ci possa far scoprire, guardiamo ma non spariamo, schiavi e padroni di un sistema capitalista che ci ha reso tanto schiavi quanto padroni. Vigiliamo, ci distraiamo, ci mostriamo per quello per cui siamo stati istruiti.
Ragioniamo di calcolo, in un momento storico in cui la tecnica vincola e riduce l’esercizio del pensiero a un ordine da dover rispettare, come se davvero avessimo bisogno di uno Stato di polizia per adempiere ai nostri doveri. Siamo esseri pensanti con le dovute eccezioni, ridotti al razionale perchè incapaci di arrenderci di fronte all’evidenza, un’evidenza che ci mette in luce per quello che siamo, fragili e senza direzione, figli perfetti di quello Stalinismo di Mercato che tanto bene Mark Fisher ha analizzato.
E quando manca il concreto ci possiamo tranquillamente aggrappare alla superstizione o alla religione, le droghe più potenti della Storia. Continuiamo a stare fermi pensando che l’acquisto di una giacca piuttosto che di un’altra migliorerà le condizioni di vita del pianeta, quel pianeta che abbiamo reso servo dei nostri capricci, siamo appagati con pochissimo, e se la bottiglia di veleno ha un’etichetta attraente lo beviamo come fosse acqua.
Ci stupiamo se durante un’epidemia una città intera scende in piazza a dimostrare amore verso un suo figlio che non c’è più. Perché non ci siamo stupiti quando quel figlio è arrivato lì per la prima volta e per la primissima volta ha dato un volto a quel sud tanto disprezzato dal nord, artefice di quella condizione di clausura e antipatia che lo ha messo sempre in secondo piano? Andava bene pagare il biglietto per vederlo giocare, osannarlo e ricercare l’autografo, ma da bravi genitori i voti alti premiano solo se anche la condotta è meritevole, e guai a pensare con la propria testa. Certamente è più facile soffermarsi sull’aspetto peccaminoso, come se tutti noi fossimo degli esempi di onestà e vita sana. Rimane una macchia sul vetro, certo, ma soffermarsi su quella anziché sulla possibilità di osservare il mondo esterno è facile, e anche molto stupido.
Da solo vivo bene, nel mio ordine delle cose, una routine quasi quotidiana che per il momento non voglio interrompere, anche perché non vedo alternative, fatta di vizi e pagine più o meno faticose da ricordare, altre da riempire, un esercizio che mi viene meglio quando il bicchiere torna vuoto. La radio indipendente al mattino mi offre spunti e mi ricorda quanto sono stato indifferente ai grandi romanzi del ‘900. Da solo vivo bene certo ma nessuna suola rimane attaccata al suo scarpone senza un collante, quella sostanza più o meno elastica che porta ad avvicinare le cose, a renderle funzionali, a far si che non vadano buttate, disperse. Da solo vivo bene, ma nel mio ordine delle cose quella colla manca, sostituita da una serie di sputi che resisteranno ben poco al passare del tempo. I contatti ci sono ma sempre corretti con la distanza, il futuro è il tempo verbale del presente e la speranza non è mai stata così vuota, vittima anche lei dell’assenza del momento. L’inverno è alle porte ma di neve neanche l’ombra. Meno male mi dico, altrimenti sarebbe ancora più difficile praticare l’ignoranza. Com’è vero che uno champagne patisce la sconfitta, quando la forbice delle possibilità si stringe non resta altro che procurarsi un coltello e sfidare il consenso. La direzione verrà da sè, l’importante sarà tenerlo dalla parte del manico, una rosa in bocca e gli occhi aperti, oggi più che mai. E che il vento della tempesta ci riempia le vele, il porto sarà più vicino.