Il giudice Caccia ammazzato perché combatteva la ‘ndrangheta? “Mio padre indagava sul Casinò…”

In una serata promossa da “Libera” a Saint-Vincent, a trentacinque anni dall’omicidio del già Procuratore della Repubblica ad Aosta e Torino, parlano la figlia Paola e il collega Giancarlo Caselli, protagonista con lui di tante battaglie giudiziarie.
Cronaca

Per la morte di Bruno Caccia, il Procuratore della Repubblica di Torino assassinato il 26 giugno 1983 mentre portava a passeggio il suo cane, due persone sono state condannate all’ergastolo. Si tratta del mandante, Domenico Belfiore, e di uno dei componenti del gruppo di fuoco, Rocco Schirripa. Nomi che, trentacinque anni dopo, permettono di consegnare definitivamente al sinistro repertorio della ‘ndrangheta la morte del magistrato cui oggi è intitolato, tra l’altro, il Tribunale del capoluogo piemontese, ma la famiglia non è convinta “delle motivazioni” emerse dai processi per quel delitto.

A dirlo, parlando ieri sera a Saint-Vincent, è stata la figlia del giudice, Paola, protagonista assieme ad un altro ex Procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, di una serata promossa da “Libera Valle d’Aosta”. “Un mese prima di morire – ha spiegato la donna – mio padre aveva fatto perquisire il Casinò, per capire se c’era del riciclaggio di somme importanti. In tasca a ‘ndranghetisti hanno trovato assegni che sembra fossero stati usati per ‘ripulire’ del denaro”. Caccia, ha aggiunto la figlia, dal 17 maggio dell’anno in cui è stato ucciso “stava facendo quello” e, “rispondendo a una domanda di mio fratello, con cui non parlava mai del suo lavoro, ha detto che stava per succedere qualcosa di grosso”, ma “non è accaduto”.

Una pista non battuta

Per la famiglia, “è una pista e non è stata presa abbastanza in considerazione nel secondo processo” sulla morte del magistrato. Parole a cui Caselli ha affiancato un dato storico significativo: “la mafia ha ucciso molti giudici, ma la ‘ndrangheta soltanto due”. In realtà, il numero va letto come uno, perché l’omicidio di Antonino Scopelliti costituisce “un favore a ‘Cosa Nostra’”, visto che quel magistrato era incaricato di sostenere l’accusa nel processo istruito da Falcone e Borsellino contro i vertici dell’organizzazione criminale siciliana. “Le mafie esistono da due secoli – ha esclamato il magistrato che le ha combattute dalla “trincea” della Procura di Palermo – e bisogna arrivare al 1992 per vedere sentenze definitive verso mafiosi di levatura”.

L’unico magistrato ammazzato per volere della ‘ndrangheta nella storia d’Italia resta quindi Caccia, caduto sotto i colpi dei killer oltretutto lontano dalle terre dove quel “sistema” è nato. Una constatazione che ha portato la figlia Paola, insegnante di scuola media, a dire: “lo si è voluto fermare per qualcosa che stava per fare, non perché semplicemente dava fastidio alla famiglia di Belfiore”, una ‘ndrina stabilita nel torinese che – stando a quanto confidato dal mandante dell'assassinio – vedeva la sua sopravvivenza a rischio, perché “con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare”.

Dal punto di vista investigativo, l’ex procuratore Caselli, noto anche per i risultati ottenuti dallo Stato nel suo periodo in Sicilia, come gli arresti dei boss Bagarella, Spatuzza e Brusca, ha sottolineato che quelle su Saint-Vincent “sono ipotesi, ma non consacrate da sentenze definitive”. Però, “ovunque circoli denaro vicino al gioco d’azzardo, elementi di dubbio non possono che esserci rispetto a canali di riciclaggio”. E un Procuratore della Repubblica di Torino “non poteva non avere le antenne dritte su quanto accadeva su versanti fisiologicamente interessanti”.

“Non esistono zone franche”

Poi, una valutazione sulla penetrazione socio-economica della criminalità organizzata: “non esistono zone franche dal tentativo di infiltrazione mafiosa. In Valle d’Aosta c’è ricchezza, e meno male, perché questo significa benessere per tutti, ma il rischio fisiologico aumenta”. Occorre “fare attenzione a tutti gli indicatori – ha messo nero su bianco il magistrato che ha iniziato la sua carriera con le Brigate Rosse e l’ha conclusa con i disordini dei No Tav – e non sottovalutare niente, come invece è accaduto a Torino”. “Quando scatta l’operazione Minotauro, la prima sulla ‘ndrangheta in Piemonte, con 150 arresti, – ha continuato Giancarlo Caselli – quanta gente è caduta dal pero. Oggi, invece, più nessuno mette in dubbio che la ‘ndrangheta si sia innalzata al centro e al nord. Mai lasciarsi sorprendere”.

Rispondendo a una domanda sul fatto che lo Stato non potesse immaginare di creare metastasi in tutto il Paese, introducendo il confino per i rappresentanti del crimine organizzato, il già Procuratore capo di Torino ha evocato che “c’era un tempo in cui i mafiosi godevano di sostanziale impunità. Pochi processi, che si concludevano con l’insufficienza delle prove. Qualcuno ha provato a dire: ‘non riusciamo a batterli con il processo penale, proviamo a fare loro del male con lo strumento amministrativo, dandogli il ‘confino’, con l’obbligo di vivere lontano dalle loro terre”.

Sicché, Caselli ha citato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nella celebre intervista a Giorgio Bocca: “è stato un boomerang”. “Questi delinquenti – è andato oltre – fanno di tutto per sembrare brave persone, ma magari lo stesso giorno erano stati a fare i loro affari”. Per il giudice che lasciò “Magistratura democratica” in polemica con un articolo di Erri De Luca su una pubblicazione dell’associazione, tuttavia “l’espansione ci sarebbe stata comunque, perché è nel Dna della mafia”. “Se ricicli, – è stato il suo ragionamento – puoi comprare beni per ‘ripulire’, ma hai voglia di farlo al sud. Non si va a riciclare in un deserto, ma dove di denaro ne circola ancora: al centro e al nord del Paese”.

Bruno Caccia, l’uomo

Oltre agli interrogativi sulle circostanze in cui ha perso la vita, la serata di Saint-Vincent ha offerto anche un ritratto di Bruno Caccia uomo. “Noi familiari – ha raccontato la figlia Paola, non senza trattenere un ancora visibile dolore – non ci rendevamo conto del valore di mio padre, finché abbiamo sentito le testimonianze dei colleghi. Noi conoscevamo una persona in famiglia”. Quel 26 giugno 1983, “era toccato a mia sorella scendere quando si sono sentiti gli spari, io ero partita per il mare” e quando “era notte” e “stavo allattando il mio bimbo di un mese”, sono “arrivati i Carabinieri a dirmelo”.

“Subito – è andata avanti la donna – ci siamo tenuti il dolore dentro. Non mi interessava neanche molto capire perché è morto. Siamo dovuti uscire un po’ quando c’è stato il primo processo, poi nel 1995 ho conosciuto ‘Libera’ ed ha aiutato molto: ho capito che potevo fare qualcosa di utile. Ho considerato importante fare luce sulla verità”. Il ricordo di Giancarlo Caselli, che di “Libera” è presidente nazionale onorario dallo scorso luglio, è legato ovviamente alla sfera professionale e risale alla metà degli anni ’70, quando da giovane giudice istruttore penale, conobbe Caccia (tornato nel 1967 a Torino, dopo la parentesi alla guida della Procura di Aosta, iniziata nel 1964), allora “sostituto procuratore generale, uno dei migliori, se non il migliore di quell’ufficio”.

“Avrebbe potuto guardarmi con sufficienza, io ero un ragazzino. – ha sorriso Caselli – Mi ha invece preso per mano e mi ha insegnato il mestiere. Ho una riconoscenza enorme e ciò che ho imparato di buono inizia proprio con lui”. Oltre a possedere tutte le altissime virtù necessarie ad un magistrato, dal racconto dell’ex Procuratore di Torino emerge il ritratto di un uomo che sapeva anche non prendersi troppo sul serio: “gli mostrai la pianta disegnata da un pentito, relativa agli appostamenti di un esponente di ‘Prima linea’, che ci osservava in un campo dove noi magistrati andavamo a giocare a tennis”, con intenzioni “che potete facilmente immaginare”. Rispose: “meno male che non si sono anche segnati i risultati delle partite, perché sennò lei, Caselli, non faceva una gran figura”.

Su quanto accaduto dopo la morte del collega, il giudice che affrontò il processo Andreotti – al centro di una nota scena del film “Il divo” di Paolo Sorrentino – ha una visione chiara: “come in tutte le grandi famiglie, anche tra i magistrati c’è quello bravo e quello menefreghista. Nelle indagini su Caccia, negli uffici giudiziari di Torino sono emerse posizioni che hanno condotto a processi penali, o disciplinari. Il rammarico è stato anche dato dal fatto che fosse circondato da persone non come lui”.

Le vittime innocenti

Un pensiero è stato quindi dedicato da Giancarlo Caselli anche alle vittime innocenti di mafia, che ”con il loro sacrificio, con la capacità di fare il loro dovere sino all’ultimo” hanno ridato “un po’ di credibilità alle istituzioni pubbliche”, talvolta rappresentate da persone non all’altezza. “Grazie a loro, la frase ‘Lo Stato siamo noi’ prende senso. Hanno svolto una funzione rivoluzionaria in chiave culturale”.

A queste persone, come ricordato anche dalla referente valdostana di “Libera” Donatella Corti, è dedicato l’appuntamento promosso dall’associazione per il prossimo 21 marzo in varie località italiane, tra le quali ci sarà anche Saint-Vincent: la giornata della memoria e dell’impegno. “I giovani di ‘Libera’ – ha spiegato l'ex magistrato, dicendo tra l’altro della “Cascina Caccia”, già dimora dei Belfiore, poi confiscata dallo Stato e assegnata all’associazione – assieme all’antimafia fanno anticorruzione. E’ bello fare cose utili, per se stessi e gli altri, che vanno verso il bene comune”.

“’Libera’ – ha aggiunto – fa tutto questo anche per ricordare che siamo un Paese con tanti problemi di mafia, ma siamo anche il Paese dell’antimafia. Io ho fatto esperienza all’estero e posso dire che siamo presi come modello”. I motivi da cui deriva l’esperienza italiana, secondo Caselli, sono il numero di vittime e la legislazione. “L’articolo 416 bis del codice penale punisce l’appartenenza all’organizzazione mafiosa. Risale al 1982 e Giovanni Falcone diceva: ‘questa norma consente di combattere la mafia con qualche probabilità di farcela. Senza, sarebbe come fermare un carro armato con una cerbottana. Altri paesi non lo hanno”.

I ricordi di una vita per lo Stato

Il cruccio di Giancarlo Caselli, che ha lasciato la magistratura nel dicembre 2013 annunciandolo con una e-mail ai colleghi, è che “la mia generazione si sta dimenticando Falcone” e “i giovani non lo conoscono”. “Questo eroe, diventato tale dopo morto, ad un certo punto viene bastonato e gli sbattono tutte le porte degli uffici giudiziari in faccia. Lui va a Roma, al ministero, e crea l’antimafia per come è ancora oggi”, con organi come la Dia, una sorta di Fbi italiana. Una campagna di calunnie che l’ex procuratore di Torino conosce per averle vissute a sua volta, sulla sua pelle: “finché ti occupi dei mafiosi dei mafiosi di strada, vai bene. Quando passi al livello superiore, non vai più bene”.

“Falcone e Borsellino – ha tuonato – hanno fastidi quando iniziano ad occuparsi di Ciancimino padre, dei Salvo, di politica ed affari”. Lo stesso è capitato a Caselli alla Procura di Palermo: “quando siamo passati da Riina, Brusca e Spatuzza ad Andreotti, Dell’Utri ed altri, ecco che la strada è diventata in salita”. Al riguardo, il magistrato ha evocato la vicenda della nomina del Procuratore nazionale antimafia, ad inizio anni duemila. “Avevo tutti i titoli, lo rivendico egoisticamente. – ha detto al pubblico – Vengono isolate, tra quelle pervenute, due domande: la mia e quella di Pietro Grasso. La votazione finisce tre pari e la questione viene demandata al Plenum”.

“Non ci arrivo, – ha constatato amaramente Caselli – perché nel mentre viene approvata una leggina per cui il Procuratore nazionale antimafia non può essere fatto da chi ha più di 66 anni”. Lui li ha compiuti da non molto (è del 1939 e siamo nel 2005). ”Vince Grasso – è la conclusione del racconto – e prima che dica qualcosa contro quella legge (la “riforma Castelli”, emendata nella parte sull’età dal senatore di Alleanza Nazionale Luigi Bobbio, ndr) ci sono voluti due anni”. Il provvedimento di esclusione dalla nomina di Caselli è stato poi dichiarato incostituzionale dalla Suprema Corte, ma alla domanda (che si pone da solo) sul perché non abbia ottenuto quell’incarico, il diretto interessato risponde: “perché a Palermno abbiamo fatto il processo Andreotti”.

Un procedimento sul quale sono state diffuse “fake news colossali”. La sentenza definitiva afferma però che “fino al 1980 l’imputato Andreotti ha commesso il reato di associazione a delinquere”, a quel punto però prescritto, da cui il “non doversi procedere” nei confronti dell’ex premier. “Non è stato assolto, come la gente è stata portata a credere”, ha sostenuto con vigore il magistrato, che alla vicenda ha dedicato il libro scritto con il collega Guido Lo Forte. Nel volume, uscito di recente per i tipi di “Editori Laterza”, “cerchiamo di mostrare che la ‘zona grigia’ è fatta di pezzi del mondo legale che, di nascosto, se la fanno col malaffare”. Non stupisce, perché, per chiudere con la frase ricordata da Donatella Corti a fine conferenza, “prima di sconfiggere la mafia fuori di noi, dobbiamo sconfiggerla dentro di noi”.

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