L’informazione antimafia “è normativamente prevista solo per gli imprenditori”. Per questo, secondo il Tribunale Amministrativo Regionale della Valle d’Aosta, il Questore del capoluogo non poteva adottare una interdittiva nei confronti dell’avvocato Andrea Giunti. I giudici hanno così accolto il ricorso del libero professionista aostano, annullando l’atto spiccato all’inizio del gennaio di quest’anno. La sentenza è stata pubblicata di recente (la causa era stata discussa in udienza lo scorso 20 settembre).
L’impugnazione dell’atto
La Questura, compiute le verifiche del caso, aveva riscontrato il coinvolgimento di Giunti nell’inchiesta “Alibante” della Dda di Catanzaro (nel frattempo, si è aperto il processo al Tribunale di Lamezia Terme, ove il legale deve rispondere, assieme alla moglie e collega Maria Rita Bagalà, di associazione di tipo mafioso), emettendo quindi il provvedimento. L’avvocato lo aveva impugnato, sostenendo il difetto dei presupposti che legittimavano la misura.
Interdizione? Solo per imprenditori
Per i giudici, “non si rinviene” nella normativa di settore “il riferimento all’adozione di informazioni interdittive nei confronti di persone fisiche non imprenditori”. Anche il potere di estensione delle verifiche antimafia a “soggetti che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa”, per i giudici del Tar “è pur sempre funzionale a valutare la permeabilità criminosa dell’impresa a cui tali soggetti sono collegati”.
“Trattasi, dunque, – continua la sentenza – di un accertamento compiuto non nei riguardi di una persona fisica in quanto tale, bensì quale parametro per misurare il grado di inquinamento mafioso dell’imprenditore, che rimane l’unico destinatario del provvedimento interdittivo”. Del resto, è il ragionamento dei giudici, l’informazione antimafia è uno strumento finalizzato a prevenire tentativi di infiltrazione nelle imprese che possano intrattenere rapporti economici con l’amministrazione (il suo effetto pratico è di inibirli).
Pertanto, si legge ancora nel verdetto della presidente Silvia La Guardia e dei giudici Maria Ada Russo e Martina Arrivi, “ipotizzare l’interdicibilità di una persona fisica non imprenditore significherebbe fuoriuscire dai limiti ‘strutturali’ dell’istituto, che da misura amministrativa di tipo cautelare e preventivo finirebbe per tramutarsi in una sorta di anticipazione di pena accessoria tipica dell’ordinamento penale, in violazione di ogni principio di legalità formale e sostanziale e di ‘prevedibilità’ della sanzione”.
Ecco quindi che, per il Tar della Valle d’Aosta, la Questura “non avrebbe potuto procedere” all’“interdizione del ricorrente”, dato dal quale consegue l’annullamento del provvedimento impugnato (che inibiva il libero professionista dall’avere rapporti lavorativi con la pubblica amministrazione). Il Ministero dell’interno e la Regione Valle d’Aosta si erano costituiti nel giudizio, rappresentati dall’Avvocatura dello Stato e da quella interna.
Il processo a Lamezia Terme
Secondo la Dda di Catanzaro, l’avvocato Giunti e la consorte (sottoposta a misura cautelare in carcere, mentre per il libero professionista il Gip aveva respinto la richiesta della Procura distrettuale guidata da Nicola Gratteri) erano parte della cosca Bagalà, “operante lungo la fascia costiera tirrenica catanzarese” e capeggiata – stando alle risultanze delle indagini – da Carmelo Bagalà, padre dell’avvocata.
In particolare, agli occhi degli inquirenti, Giunti avrebbe partecipato al sodalizio “prestando assistenza tecnico-professionale agli associati e offrendo consiglio nella predisposizione del programma criminoso nei settori economico-finanziario e imprenditoriale, nonché consulenza nell’approntamento delle strategie e dei modi più opportuni per perseguire” tali obiettivi. La Dda ritiene, soprattutto che Giunti “organizzava importanti operazioni di riciclaggio di denaro, finalizzate a perseguire il programma criminoso della cosca”.