Assolta in Spagna la donna accusata di aver ucciso il pluripregiudicato Nirta

Si è chiuso oggi il processo a Cristina Elena Toma, all’epoca dei fatti legata sentimentalmente alla vittima dell’omicidio, avvenuto il 9 giugno 2017 ad Aguilas, mentre la coppia stava rientrando nella casa del 52enne di San Luca.
Copertina Nirta
Cronaca

Assoluzione dell’imputata, che ha accolto il verdetto abbracciando il suo difensore. E’ l’esito del processo conclusosi al Tribunale di Murcia oggi, giovedì 5 maggio, nei confronti di Cristina Elena Toma, accusata di aver ucciso il pluripregiudicato Giuseppe Nirta, 52enne di San Luca (Reggio Calabria). La donna era legata sentimentalmente alla vittima all’epoca dei fatti, avvenuti il 9 giugno 2017 ad Aguilas, in Spagna, mentre la coppia stava rientrando a casa a bordo dell’Afla 147 dell’uomo, già indagato dagli inquirenti iberici per i presunti legami con la ‘ndrangheta.

L’accusa, partendo dall’inchiesta della Guardia Civil, sosteneva che l’imputata fosse l’esecutrice materiale del delitto, avendo sparato sette colpi di pistola a Nirta. La vittima, con precedenti per droga e già coinvolto nell’operazione “Minotauro” della Dda di Torino sulle ‘ndrine piemontesi, era anche fratello di Bruno Nirta, detto “La Belva”, coinvolto nel processo Geenna su una “locale” attiva ad Aosta e condannato in Appello, nel luglio 2021, a 12 anni 7 mesi e 20 giorni di carcere, essendone ritenuto il “coordinatore”.

Per Toma, l’accusa aveva chiesto una pena iniziale di 26 anni, poi ridotti a 21 durante il processo, iniziato lo scorso 25 aprile. La tesi inquirente era legata soprattutto a due relazioni tecniche, basate sulla scena del crimine e sui reperti: dai documenti era emerso che la maglia e i pantaloni indossati da Toma presentassero tracce di polvere da sparo. L’accusa ha inoltre insistito sul fatto che l’imputata non avesse chiamato le forze dell’ordine o numeri di emergenza per chiedere soccorso, limitandosi a informare un’amica di Nirta dell’accaduto, usando il cellulare della vittima.

La versione dell’accusata, ribadita anche a processo con dichiarazioni spontanee, è sempre stata opposta, rappresentata dal fatto che, la sera in cui i due stavano rientrando nella nuova casa dell’uomo, “scendendo dalla macchina, dietro di lui, ho visto una persona incappucciata. Ho detto ‘che cos’è?’ e ho sentito sparare. Mi son coperta con le mani e sono scappata via, poteva uccidermi”. Di origini romene, Toma ha spiegato di aver iniziato la frequentazione con Nirta circa un anno e mezzo prima: lui era cliente del ristorante in cui lei lavorava.

Prima di arrestare la donna, gli inquirenti spagnoli avevano “battuto” la pista di un omicidio nato nel narcotraffico, indagando alcune persone ed arrestando anche un pregiudicato italiano ex affiliato della Mala del Brenta, da decenni trasferitosi in Spagna. Detenuto per scontare una lunga pena, era in licenza premio nel giorno dell’omicidio, poi fuggì. Venne subito accusato dell’assassinio, sulla base di presunti attriti con Nirta nel periodo in cui abitavano vicini.

La tesi però cadde nel giugno 2018: le indagini escludevano le loro responsabilità ed accreditavano quelle di Cristina Elena Toma. Il resto è storia del processo finito oggi, in cui al verdetto è giunta una giuria popolare, e di un omicidio che, per ora, resta senza risposta. “Sono povera, ma non sono un’assassina”, aveva detto l’imputata in una delle ultime udienze, aggiungendo “Voglio che sia fatta giustizia”.

Agenti della Guardia Civil (foto d’archivio).

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