Coronavirus, 50 pazienti trattati con gli anticorpi monoclonali: evitati 40 ricoveri
Cinquanta persone trattate fino ad ora, dallo scorso 24 marzo, e una quarantina di pazienti che hanno evitato il ricovero nei reparti Covid del “Parini”, contribuendo in maniera decisiva a togliere pressione sull’unico ospedale valdostano.
Questo l’impatto, nei primi giorni, della terapia con gli anticorpi monoclonali in Valle d’Aosta, utilizzati nella cura precoce dei pazienti affetti dal nuovo Coronavirus. A spiegarlo la dottoressa Silvia Magnani, da poche settimane Direttrice della Struttura semplice Malattie Infettive: “Al momento sono state trattate 50 persone, la prima somministrazione è cominciata il 24 marzo. Molte di queste persone, per fattore di rischio, sarebbero state con molta probabilità candidate ad un ricovero. A stare stretti penso che almeno 41 persone sarebbero state ricoverate”.
Risultato – quello dell’alleggerimento sui reparti del “Parini” – in qualche modo atteso: “Siamo stati tra i primi d’Italia ad avviare questo tipo di terapia – prosegue Magnani –, grazie all’impegno del Ministero, e proprio perché abbiamo un solo ospedale. Finora abbiamo usato, in 13 giorni, un terzo delle terapie che avevamo a disposizione. Siamo la regione con il più alto numero di trattamenti per abitante. Per ora abbiamo ancora un altro centinaio di trattamenti e verremo probabilmente riforniti presto”.
Ma come funzionano gli anticorpi monoclonali? La dottoressa Magnani spiega come l’anticorpo funga da “fodera” a protezione dell’organismo: “Si chiamano monoclonali perché sono ottenuti da anticorpi umani e replicati, tutti uguali, grazie all’ingegneria biologica. Questo permette una produzione su larga scala. Di fatto, gli anticorpi monoclonali sono diretti contro la proteina ‘spike’ (la ‘punta’ del SARS-CoV-2, e principale meccanismo di infezione, ndr.), alle quale si lega impedendo così al virus di poter entrare all’interno della cellula. Essendo così prodotti si possono quindi standardizzare, a differenza della terapia al plasma che dipende da quanti anticorpi ha prodotto o meno il donatore”.
Una terapia per chi è in difficoltà
Il che spiega anche perché sia considerata una terapia precoce: “Purtroppo – prosegue l’infettivologa –, il dramma del Covid è che abbiamo pochissime armi a disposizione per la patologia grave, e non ci sono farmaci mirati contro il virus. Esistono delle terapie di supporto, ma il danno che provoca il virus è proprio all’inizio. Tra le persone trattate due hanno manifestato un effetto collaterale esauritosi in 24 ore, mentre altre due sono state ricoverate perché avevano già una polmonite quando sono arrivate– Sono state trattate per arginarla, ma poi è stato necessario lo stesso il ricovero”.
L’identikit del candidato alla terapia è piuttosto chiaro, e soprattutto non può essere utilizzata “a tappeto”: “Reclutiamo i pazienti che ci vengono segnalati dai Medici di Medicina generale o dalle squadre Usca – prosegue Magnani –, oppure raccogliamo le segnalazioni dei Nefrologi. Preleviamo poi i pazienti grazie alle auto del 118, messe a disposizione dal dottor Cavoretto. In linea di massima trattiamo i grandi obesi di qualsiasi età, mentre sono candidabili persone che assumono farmaci immunosoppressivi e persone sopra i 55 anni, diabetici con complicanze, pressione alta e danni d’organo, cardiopatici e cerebropatici. Questi sono criteri ministeriali individuati soprattutto riguardo le comorbilità. Infatti, oltre all’età, i fattori di rischio prognostici per le infezioni più gravi da Covid-19 sono il diabete, l’ipertensione, l’obesità, le patologie cardiache pregresse e le terapie immunosoppressive. Riguardo le altre persone è una terapia che non avrebbe molto senso, se consideriamo che chi non ha fattori di rischio ha l’80% di probabilità di avere un’infezione asintomatica”.
Come cambia il virus
Qualcosa, però, sta cambiando, e la dottoressa Magnani lo dice chiaramente: “Il fatto che il virus circoli ancora moltissimo fa sì che si creino le varianti. L’unica cosa che può fare per eludere tutto questo è cambiare, perché più circola più si modifica. Le chiavi per il futuro sono le terapie monoclonali da una parte e la vaccinazione di massa dall’altra”.
A cambiare, di conseguenza, è anche l’età stessa dei ricoverati: “Abbiamo visto gli effetti del virus sulle persone più anziane – prosegue la Direttrice di Malattie infettive –, ma con le varianti in circolo abbiamo anche decine di persone che hanno dai 50 ai 60 anni. Tra i 40 e i 50 anni sono ricoverati più o meno cinque, ma tutti con il casco”.
Se una delle chiavi per debellare il contagio è il vaccino, qualcosa comunque non ha funzionato a livello nazionale: “Ritengo che dal punto di vista puramente sanitario l’idea di vaccinare prima i 90enni e gli ospiti delle microcomunità e delle rsa sia stato corretto – spiega ancora Magnani –. Nella seconda ondata abbiamo avuto un grosso numero di grandi anziani ricoverati, con degenze anche molto lunghe. Il senso di vaccinarli prima è ben chiaro. Poi gli insegnanti, sicuramente. Sono state dimenticate però, a mio avviso, alcune categorie fondamentali secondo me: gli autisti, che spesso sono stati ricoverati, e chi lavora in fabbrica e in filiera. Ma anche i liberi professionisti, che se positivi devono chiudere la propria attività e non hanno cassa integrazione. Andavano vaccinati per motivo molto semplice: se faccio un tampone, ora che ci sono anche quelli rapidi, magari non lo dichiaro per non essere obbligato a chiudere e smettere di lavorare”.