La Liberazione al cinema

In questa puntata di “Incontri ravvicinati con AIACE”, vi offriamo uno sguardo cinematografico sulle sofferenze, le disillusioni e le speranze di un periodo storico che ha cambiato la storia del Paese.
UNA QUESTIONE PRIVATA
Incontri ravvicinati con AIACE

Oggi, 25 aprile, l’Italia celebra la Festa della Liberazione, anniversario che commemora la fine dell’occupazione nazista e del regime fascista. In questa puntata di “Incontri ravvicinati con AIACE”, vi offriamo uno sguardo cinematografico sulle sofferenze, le disillusioni e le speranze di un periodo storico che ha cambiato la storia del Paese.


UNA QUESTIONE PRIVATA di Paolo e Vittorio Taviani, disponibile su RaiPlay

Italia, 2017; guerra, drammatico

Per celebrare il 25 aprile, immergiamoci nelle atmosfere evocative delle Langhe con “Una questione privata” dei fratelli Taviani, che ci offre uno sguardo intenso e personale sulla resistenza esplorando come gli echi del cuore umano possano risuonare anche tra le ombre della guerra.

 

“Una questione privata”, diretto dai fratelli Taviani e tratto dall’omonimo romanzo di Beppe Fenoglio, mette in scena le vicende di Milton, un giovane partigiano interpretato da Luca Marinelli, uno dei migliori attori della nuova generazione del cinema italiano. Ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, il film segue il percorso di Milton nelle Langhe, luoghi per lui saturi di ricordi. Durante un soggiorno nel casale dove trascorreva le vacanze, una conversazione con la governante suscita in lui dubbi su un possibile passato amoroso tra la sua amata Fulvia e l’amico Giorgio. Motivato da questa rivelazione, Milton parte alla ricerca di Giorgio, anch’egli partigiano ma in un gruppo differente, per scoprire infine che è stato catturato dai fascisti. Quest’opera non ci presenta semplicemente un confronto tra partigiani e fascisti, ma piuttosto una serie di conflitti interni, personali e intensamente umani, che si svolgono sullo sfondo di un conflitto molto più ampio e devastante.

Degno di nota il momento in cui la narrazione si sposta brevemente sul punto di vista di un fascista, precedentemente compagno di classe dei protagonisti. Questo cambio di prospettiva rivela la complessità degli affetti e dei legami in un piccolo paese, dove la guerra non è solo un conflitto tra ideologie, ma anche un intreccio di relazioni personali spezzate e tradite.

Le Langhe sono ritratte come un luogo quasi mistico, un territorio sospeso fuori dal tempo e dallo spazio, che cattura l’essenza della memoria e del sogno. I fratelli Taviani sfruttano sapientemente il paesaggio mozzafiato per evocare una sensazione di eterna sospensione, dove il passato e il presente si fondono in un unico, palpabile sentimento di nostalgia e perdita. Questa ambientazione non solo arricchisce la narrazione, ma eleva anche il dramma personale al livello di un’epica visiva, rendendo il film un’esperienza immersiva e profondamente toccante.

Se il film vi è piaciuto vi consigliamo di recuperare anche La notte di San Lorenzo, un altro capolavoro dei fratelli Taviani anch’esso ambientato al tempo della resistenza.

 

PAISÀ di Roberto Rossellini, disponibile su Rai Play

Italia, 1946; guerra, film a episodi

PAISA
PAISA

La liberazione dal nazi fascismo raccontata attraverso sei cronache-novelle che seguono la lenta e inevitabile avanzata delle truppe alleate da Sud a Nord. Ogni episodio, una regione o una città: Sicilia, Napoli, Roma, Firenze, Appennino Emiliano, il delta del Po.

Su Paisà non si possono che scrivere lettere piene d’amore. Non una folgorazione a prima vista, sia chiaro, ma un veleno a lento rilascio che, una volta esaurito il suo effetto, ha la forza di un’epifania. A una prima, immatura e tenera visione, Paisà ha l’aspetto di un oggetto misterioso, ma di cui non si riesce a cogliere il segreto. Cos’è questo capolavoro su cui tutti hanno scritto? Guerra? Cronaca? Neorealismo? No, è Cinema. A questa conclusione si giunge almeno con una seconda visione, ma è attraverso la lettura che si insinua il veleno dell’innamoramento. Perché è grazie a Bazin che si impara a guardare il film di Rossellini, e forse proprio Rossellini stesso, l’autenticità delle sue immagini, la necessità della sua poetica. Se Bazin non avesse dichiarato che la messa in scena è “la materia stessa del cinema”, cosa ne sarebbe del più grande autore della settima arte in Italia? Il maestro della critica ha scritto: «Rossellini conserva una certa intelligibilità nella successione dei fatti, ma questi non si ingranano l’uno sull’altro come una catena su un pignone. Lo spirito deve saltare da un fatto all’altro, come si salta di pietra in pietra per attraversare un fiume. Capita che il piede esiti a scegliere fra due rocce, o che manchi la pietra o che scivoli su una di esse. Così fa il nostro spirito». Se Visconti è come Balzac, che narra e partecipa, Rossellini è come Zola, che osserva e descrive. Tratteggia. Disegna. Non dipinge. Non analizza. Mostra, nella sua interezza più pura ed essenziale, la realtà, e l’idea insita in essa. La voce narrante serve soltanto ad orientarci nello spazio e nel tempo, ma sono le immagini a guidarci. Acquistano un senso in quanto non fanno altro che metterci davanti agli occhi la realtà, che, quasi insostenibile, non può che rivelare il suo stesso significato. Paisà può non essere il più bel film sulla resistenza, ma è senz’altro il più giusto, rigoroso, impassibile. Il più indissolubile dall’ontologia del cinema e la sincerità dell’uomo che se ne fa portavoce. Ed è qui che fuoriesce la sua collettività: non assumendo neanche un secondo il punto di vista di un soggetto particolare, illumina i tratti schematici di quello che è stato un fatto umano ripreso nella sua integralità, mai individuale, mai separata dall’ambiente. Paisà non è soltanto “sei storie della Liberazione dal nazi fascismo”, ma il Cinema. Non solo italiano, va da sé.

Se non avete mai visto Roma città aperta, l’altro capolavoro di Rossellini sulla Liberazione, su Rai Play potete recuperarlo, così come numerosi altri titoli del maestro restaurati. Per capire il cinema moderno, non potete non vedere il suo Viaggio in Italia. O Europa ‘51. O il sottovalutatissimo La paura. Già che ci siete, guardateli tutti. Perché, parafrasando ciò che Truffaut disse di Fritz Lang, bisogna amare Rossellini.

 

LA DONNA NELLA RESISTENZA di Liliana Cavani, disponibile su YouTube

Italia, 1965; documentario storico

LA DONNA NELLA RESISTENZA
LA DONNA NELLA RESISTENZA

Nel 1965, in occasione del ventesimo anniversario della Liberazione, Liliana Cavani approfondisce il ruolo femminile nella Resistenza italiana con un film delicato quanto lucido e onesto, realizzato per la Rai. Prima del suo esordio alla regia di lungometraggi di finzione, ancora lontana dal grande successo di Francesco del 1989, Cavani restituisce voce e memoria alle partigiane, alle staffette e alle dirigenti politiche che lottarono tra le fila della Resistenza, mettendo a rischio la propria vita e la propria incolumità. Con lo stile di un’inchiesta giornalistica, si alternano le interviste delle protagoniste, supportate da alcuni filmati e immagini d’archivio.

Mentre sullo schermo scorrono le fotografie di donne in posa, secondo la moda del tempo, risuonano le parole di addio che hanno scritto per i loro cari, consapevoli di essere condannate a morte dai nazifascisti. Poi, iniziano a susseguirsi i racconti toccanti di alcune partigiane: tra le prime, Germana Boldrini ricorda quando diede il segnale dell’attacco partigiano nella battaglia di Porta Lame, combattuta nel novembre del 1944 a Bologna. Prosegue Marcella Ficca, che organizzò un rocambolesco piano di evasione da un carcere romano per alcuni compagni partigiani, destinati all’esecuzione. Tra loro c’erano due futuri Presidenti della Repubblica, Giuseppe Saragat e Sandro Pertini. Maria Fusconi, invece, racconta la sua incarcerazione a Firenze insieme alla figlia Anna Agnoletti, che fu fucilata per non aver rivelato alcuna informazione alle squadre fasciste – insignita poi dalla Medaglia d’oro al valor militare. Le testimonianze delle partigiane sono completate da una voce narrante, col compito di definire il quadro storico, insieme al materiale d’archivio usato con morigeratezza. Una dopo l’altra, le protagoniste evidenziano con grande lucidità come il loro status sociale sia cambiato con l’inizio della guerra, quando furono chiamate a sostituire i loro uomini nelle fabbriche e in altri ruoli professionali, fino ad allora considerati esclusivamente maschili. L’armistizio dell’8 settembre 1943 segnò un’ulteriore svolta nella lotta per l’emancipazione femminile: molte donne si unirono alle bande partigiane per affermare i loro ideali, ottenendo riconoscimento e stima da parte dei compagni a fronte delle loro coraggiose imprese. Come afferma una delle intervistate, “ci fu sempre la netta sensazione che la battaglia che si combatteva in quei giorni non doveva limitarsi a questo aspetto quasi negativo, cioè di cacciata del nemico e dell’oppressore, ci fu nelle donne che parteciparono alla Resistenza la volontà di un mondo diverso”.

Se la scoperta della componente femminile della Resistenza vi ha coinvolto, vi consigliamo di guardare anche Libere di Rossella Schillaci. Realizzato nel 2017, con uno sguardo ancora più contemporaneo rispetto a La donna nella Resistenza, il film fa ricorso ad un ricco materiale d’archivio per ricostruire le lotte delle partigiane italiane e la loro determinazione a non rinunciare alle libertà conquistate, dopo la fine della guerra.

 

MIRACOLO A SANT’ANNA di Spike Lee, disponibile su AppleTV

Italia, USA, 2008; guerra, drammatico

MIRACOLO A SANT’ANNA
MIRACOLO A SANT’ANNA

New York, 1983. Hector Negron, impiegato postale a pochi mesi dalla pensione, uccide a sangue freddo con una vecchia pistola tedesca un uomo che si era presentato al suo ufficio. Cosa l’ha spinto a farlo? Per rispondere a questa domanda, torneremo indietro nel tempo, nell’estate del 1944, in un piccolo villaggio della Toscana in una zona brulicante di truppe naziste, dove un gruppo di soldati afroamericani, tra cui Hector, si ritrova bloccato. Con loro il giovanissimo Angelo, unico sopravvissuto all’eccidio di Sant’Anna di Stazzema.

Primo film diretto dal regista fuori dai confini statunitensi, Miracolo a Sant’Anna, come spesso capita nelle pellicole di Spike Lee, non ci presenta una divisione netta tra buono e cattivo: non ci si accontenta infatti di una semplicistica divisione tra campo giusto e campo sbagliato. Ed è così allora che vediamo un capitano americano abbandonare alcuni uomini del suo reggimento perché neri o un soldato tedesco salvare dei bambini italiani, scopriamo la storia di un intero villaggio trucidato per proteggere un gruppo di partigiani, incontriamo anche partigiani traditori poco meritevoli di tali sacrifici. Il film, tratto dal romanzo omonimo di James McBride, parla anzitutto di razzismo, ma riesce anche a trasformarsi in una riflessione sull’assurdità della guerra e a mostrare una semplicissima verità universale: nessuno è felice di ritrovarsi lì, tra la fame, il freddo e i cadaveri che si accumulano, né il soldato nero né il soldato bianco.

Se in questo titolo si parla dell’eccidio di Sant’Anna (con una certa licenza poetica – qui se ne parla come di una rappresaglia, mentre nella realtà storica fu un vero sterminio premeditato dai nazisti con il supporto di alcuni collaborazionisti italiani della RSI), restando in tema crimini di guerra, sempre su AppleTV potete recuperare L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, che racconta le vicende della strage di Marzabotto in cui vennero trucidate 770 persone.

 

IL GENERALE DELLA ROVERE di Roberto Rossellini, disponibile su Rai Play

Italia, 1959; guerra, drammatico

IL GENERALE DELLA ROVERE
IL GENERALE DELLA ROVERE

1944, occupazione nazista in Italia: Bardone, il protagonista, sopravvive barcamenandosi tra i più disparati espedienti. Una delle sue specialità è chiedere ai parenti di prigionieri e deportati somme di denaro. Il truffatore garantisce che le pene dei congiunti saranno alleviate o addirittura estinte grazie alle sue importanti quanto inesistenti entrature presso i tedeschi. Presto scoperto dalle SS, Bardone viene arrestato. Per salvarsi, il protagonista accetta di diventare una spia nel carcere di San Vittore, dove dovrà impersonare Giovanni Braccioforte Della Rovere, generale in forza alle truppe di liberazione. Il compito di Bardone sarà quello di raccogliere ogni informazione possibile sulle attività della resistenza.

Ecco un film che ha vinto il Leone d’oro nel ‘59 ed il Nastro d’argento nel ‘60. La regia è di Roberto Rossellini e il soggetto di Indro Montanelli. Nel cast Vittorio De Sica, Sandra Milo, Giovanna Ralli, Vittorio Caprioli, Franco Interlenghi  sono impegnati in una pellicola spartiacque tra la fase “neorealista” e quella “televisivo/didattica” del regista. La storia è quella di un antieroe, un cinico, un mediocre con una mise en scene che rapisce. Un guitto che di fronte alla tragedia di un paese distrutto e in ginocchio rimane completamente indifferente, disposto a ricorrere ad ogni forma di bassezza pur di esaltare la propria individualità e continuare ad indulgere ad oltranza. Il sonno della ragione e della coscienza non sarà interrotto dal confronto con le miserie degli altri, quanto dalla ribellione all’autorità. Bardone non è un buono, né tanto meno un eroe, nonostante la parabola della sua redenzione possa sembrarci credibile e a tratti sentita. Questa presunta metamorfosi, presentata gigioneggiando alla ricerca di un facile consenso del pubblico, cerca di edulcorare un protagonista che dispone del prossimo a suo piacimento per soddisfare i vizi di cui è schiavo. Bardone è senza ombra di dubbio un superficiale, profondamente umano, così tanto “italiano” nel suo essere cialtrone, opportunista e qualunquista. Sarà la ribellione all’autorità, agli ordini da eseguire alla lettera che gli indicherà il suo posto nel mondo, la parte dove stare. Questo resta un protagonista che nella sua impossibilità di essere un personaggio positivo finisce per fare del bene anche perseguendo i suoi istinti antisociali. Una pellicola a tratti quasi autobiografica, con un De Sica giocatore incallito e diviso tra più donne, come effettivamente era nella realtà. Contemporaneamente Rossellini punteggia il lungometraggio di visioni che sembrano a tutti gli effetti ricordi personali di quel periodo, tanto da portarlo dall’ altra parte della camera da presa per un breve cameo. Il Generale Della Rovere non è necessariamente un film sulla liberazione del nostro paese, quanto sull’assurdità della guerra e delle sue atrocità, tali da spingere a reagire persino chi non ha mai avuto una sensibilità suscitando una risposta totalizzante. Oppure ci si sbaglia e anche questa pellicola semplicemente serve solamente ad ingrassare il luogo comune: “Italiani brava gente”. Partendo dal dato incontrovertibile che la storia viene sempre scritta dai vincitori, anche il cinema, sicuramente in buona fede, probabilmente in un afflato di pacificazione sociale a posteriori e con buona pace del neorealismo, rappresenta la resistenza in una chiave molto positiva. Una chiave che tende a non considerare la realtà storica di questo fenomeno, assolutamente più sfaccettato e non privo di momenti anche fortemente negativi. Presentarci l’antieroe gretto e senza scrupoli che, vestiti i “magici” panni della resistenza non solo si trasforma in eroe, ma addirittura è pronto a farsi martirizzare, servirebbe a sottolineare, in chiave quasi favolistica, la funzione salvifica della resistenza, per le sorti del paese e per l’animo di ciascuno di noi. Vorremmo lasciarvi con questa doppia lettura, nella speranza possa ulteriormente invogliare tutti a farsi un’opinione su di un film non solo ottimo, ma assolutamente “classico”.

 

LE PRIME BANDE di Paolo Gobetti, disponibile sul sito dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza

https://resistenzaedeportazione.ancr.to.it/film/le-prime-bande/

Italia, 1984

LE PRIME BANDE
LE PRIME BANDE

È dal 1945, e con me credo buona parte dei partigiani, che cerco di trovare il significato più profondo, per me, dell’esperienza di quei venti mesi. Sempre meno mi convincono le interpretazioni ufficiali, storiche o celebrative […].

Dal ‘45 mi ero chiesto perché il cinema non poteva rendere palese anche agli altri, quello che poteva essere stata per noi, per alcuni di noi, questa esperienza.

Paolo Gobetti – Prefazione al volume del Nuovo Spettatore

Nuto Revelli, Sandro Galante Garrone e Paolo Gobetti attraversano lo schermo orizzontalmente mentre salgono verso Paraloup: sono le primissime immagini di Le prime bande. È qui, in provincia di Cuneo, che nel settembre 1943 prende forma il quartier generale delle bande partigiane di Giustizia e Libertà della zona. La Resistenza, i suoi protagonisti e i suoi luoghi (ri)vivono in uno spazio che è punto d’incontro tra passato, presente e futuro: il cinema.

“Prime bande” nasce inizialmente come prodotto di dodici minuti da inserire all’interno dei cosiddetti programmi dell’accesso della Rai (programmi autogestiti introdotti con la riforma RAI del 1975). In questa sua forma iniziale il progetto è costituito da tre interviste: una a Nuto Revelli, una a Sergio Bellone e una a Don Giuseppe Pollarolo. Sono presenti anche due riprese realizzate entrambe nell’autunno del 1943, una da Don Pollarolo e Aldo Sacchetti, partigiano della banda “Italia Libera”, a Paraloup, l’altra – in 8mm – da Michele Rosboch e Claudio Borello tra ottobre e novembre nel Canavese.

Questo materiale confluirà successivamente nel prodotto più complesso e stratificato che è, appunto, Le prime bande. Nel film sono infatti presenti materiali di diversa provenienza: le numerose interviste realizzate appositamente da Paolo Gobetti e dal Collettivo dell’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, le preziose riprese di cui sopra e diverso materiale audiovisivo-fotografico d’epoca.

Don Giuseppe Pollarolo ci parla della sua esperienza all’indomani dell’8 settembre all’interno del suo studio a Torino, immerso nei quadri che lui stesso dipinge; in un prato sopra Certosa Pesio, Lucia Boetto Testori racconta di come si spostasse in bicicletta, a volte in mezzo a percorsi pieni di neve, con un plastico da cinque chili nelle borse, micce intorno alla vita e detonatori nascosti sotto ai guanti, uno per dito;  Paolo Gobetti e Gianni Jarre ricordano insieme, mentre attraversano un bosco a Meana, la prima volta che hanno incontrato una “banda di partigiani” nel novembre ’43, proprio negli stessi luoghi in cui si trovano, quarant’anni dopo.

La macchina da presa talvolta poi indugia sui paesaggi e sulle persone della troupe che li attraversano durante la lavorazione: non ci sono in fondo confini netti né tra intervistatori e intervistati – Gobetti compare in scena in duplice veste – né tra protagonisti davanti e dietro la macchina da presa, né tra i luoghi del passato e del presente.

Lo spettatore, in qualsiasi epoca si ritrovi a guardare Le prime bande e qualunque sia il suo vissuto – più o meno estraneo al contesto resistenziale di quegli anni – compie lui stesso insieme ai suoi molteplici protagonisti un percorso che si dipana minuto dopo minuto, intervista dopo intervista e che conduce verso un vivo orizzonte di riflessione, proiettato tanto verso quel periodo quanto verso un futuro sempre in costruzione.

Se vi è piaciuto potete guardare anche Nome di battaglia donna (Daniele Segre, 2016), disponibile a noleggio su Vimeo. Nel film di Daniele Segre, recentemente scomparso, sono alcune donne partigiane piemontesi le assolute protagoniste: Marisa Ombra, Carmen Nanotti, Carla Dappiano, Gisella Giambone, Enrica Morbello Core, Maria Airaudo, Rosi Marino, Maddalena Brunero.

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