Come sta il permafrost nell’area alpina?

Il dato emerge da uno studio internazionale al quale ha contribuito anche Arpa Valle d'Aosta. Spiega il tecnico dell'Agenzia Paolo Pogliotti: "In tutte le Alpi si registra un trend di degradazione del permafrost".
Il sito di monitoraggio del permafrost a Cime Bianche
Ambiente

Nel 2023 le temperature del permafrost dell’area alpina – il terreno perennemente ghiacciato tipico delle regioni fredde – hanno raggiunto livelli record, in particolare per quanto riguarda i siti rocciosi. Fenomeno dovuto, in gran parte, alle due estati consecutive particolarmente calde. Quelle, cioè, del 2022 e – appunto – del 2023.

A scriverlo e l’Arpa Valle d’Aosta, che comunica quanto emerge dallo studio State of the climate in 2023, pubblicazione internazionale peer-reviewed che riassume annualmente il report sul clima globale uscito come supplemento al Bulletin of the American Meteorological Society.

La maggior parte dei siti monitorati nelle Alpi europee – scrive l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente basandosi sui dati del report – ha mostrato, nel 2023, spessori dello strato attivo, cioè la profondità raggiunta dal fronte di scongelamento stagionale, pari o vicini ai valori massimi registrati, con alcune località che hanno stabilito nuovi record.

Messaggi che – dice Arpa – “evidenziano i cambiamenti significativi che si stanno verificando nel permafrost alpino e che potrebbero avere crescenti implicazioni per gli ecosistemi montani e la stabilità delle infrastrutture in alta quota”.

“In tutte le Alpi si registra un trend di degradazione del permafrost – spiega Paolo Pogliotti, tecnico dell’Ufficio sostenibilità ambientale e cambiamenti climatici dell’Arpa valdostana –. Questo Significa che le temperature stanno lentamente aumentando dove c’è il permafrost. Si vede in tutte le Alpi, ma i dati variano a seconda del sito di riferimento, dal momento che alcune aree, dove il materiale prevalente è detritico, si scaldano di meno. In altri siti, formati da ammassi rocciosi compatti, come sul Monte Bianco e sul Monte Rosa, la conduzione del calore è più forte”.

In uno studio che Pogliotti ha condotto nel 2023 dal titolo Warming Permafrost in the Western Alps: A Further Evidence of Elevation Dependent Warming? – scritto con i colleghi di Arpa Edoardo Cremonese e Umberto Morra di Cella per Journal of Alpine research/Revue de géographie alpine – emerge qualche dato.

“I risultati – si legge – mostrano che nella regione lo spessore dello strato attivo sta aumentando con una tendenza media di approfondimento di circa +2 m per decennio; il permafrost si sta riscaldando a tutte le profondità osservate con tassi più forti nelle masse rocciose compatte rispetto a quelle fratturate/alterate; i tassi di riscaldamento rilevati a profondità superiori a 15 m a 3000 m di altitudine sono di circa +0,2 °C/10 anni in accordo con quelli osservati a livello globale; le temperature della superficie rocciosa sulle pareti settentrionali sopra i 4000 m di altitudine mostrano un tasso di riscaldamento medio di +0,42 °C/10 anni”.

Lo studio State of the climate in 2023 include anche i dati provenienti dal sito di monitoraggio del Colle Superiore di Cime Bianche, nel comprensorio di Cervinia, nel quale Arpa Valle d’Aosta studia gli impatti del cambiamento climatico sul permafrost alpino sin dal 2008, con il supporto logistico della società Cervino spa.

Il sito – spiega l’Agenzia – “è diventato nel tempo un vero e proprio laboratorio a cielo aperto dove Arpa collabora con numerose università nazionali ed internazionali alla comprensione di questi fenomeni ed all’applicazione di nuove tecnologie di indagine e monitoraggio”.

“Abbiamo un sito attivo da vent’anni – dice ancora Pogliotti –, si tratta sostanzialmente di un foro di 40 metri con una serie di sensori di temperatura che misurano il substrato nel tempo. Da qui otteniamo una serie di dati sui quali calcoliamo le temperature medie annue, il trend di riscaldamento e le variazioni dello strato attivo, ovvero la porzione che si congela e scongela nel suolo, che è indicatore dello strato del permafrost”.

“È un fenomeno complesso – aggiunge –, perché risponde in modo differente rispetto alla conformazione del territorio. In generale, il trend di degradazione si vede in tutte le matrici. Ed è un trend di riscaldamento”.

Trend che ha un’origine: “Di fondo, il cambiamento sta avvenendo effettivamente su scala globale – dice sempre Pogliotti –. Questo studio è l’ennesima evidenza. Se andiamo a vedere storia del nostro pianeta, un cambiamento così veloce e uniforme a livello spaziale non si è mai vista. È l’ulteriore conferma che questo cambiamento non ha un’origine naturale ma antropica”.

I rischi

Il permafrost ha una funzione precisa, e l’ha avuta nel tempo, dal momento che la sua solidità ha permesso di fissargli sopra una serie di strutture. Rese stabili da un terreno sempre gelato.

“In alta montagna i problemi più gravi sono quelli alle infrastrutture – spiega ancora Pogliotti –. Ci sono già diverse zone nelle Alpi che ne subiscono gli effetti. È come se il permafrost fosse del cemento per gli ammassi rocciosi, ha quella funzione. Quando si degrada, manca l’effetto di riuscire a consolidare la massa rocciosa. Quando questo ruolo viene meno, gli ammassi si muovono. Ed è proprio sulle parti superficiali della roccia che sorgono bivacchi, rifugi, piloni”.

Per questo, aggiunge il tecnico Arpa, “aumentano anche i rischi per i frequentatori della montagna, soprattutto in alta quota dove si è soggetti sempre più a scariche di rocce e massi”.

Insomma, chiude Pogliotti, “il trend di riscaldamento c’è. Con il tempo fenomeno evolverà e anche la montagna troverà uno stato di equilibrio alle condizioni più calde. Probabilmente, dovranno succedersi una serie di eventi di assestamento grossi. Possono succedere. E anche noi impareremo ad adattarci”.

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