‘ndrangheta, la Cassazione: dall’avvocata Bagalà “consapevole adesione” agli intenti del padre

E’ la valutazione della Suprema Corte che ha fatto scattare, per la libera professionista accusata di associazione di tipo mafioso, la custodia cautelare in carcere. Per i giudici, assenti “segnali univoci che attestino una rescissione dal contesto associativo”.
L'avvocata Maria Rita Bagalà
Cronaca

I fatti contestati a Maria Rita Bagalà, l’avvocata 52enne residente ad Aosta accusata di associazione di tipo mafioso nell’ambito dell’inchiesta “Alibante” della Dda di Catanzaro, imperniata sull’esistenza di una cosca di ‘ndrangheta guidata dal padre della donna lungo il litorale tirrenico calabrese, evidenziano “comportamenti univoci caratterizzati da reiterazione e stabilità che rivelano la consapevole adesione” dell’indagata “alle politiche espansionistiche” del genitore, ritenuto dagli inquirenti capo della consorteria, e delineano il “ruolo dinamico e perdurante nel tempo” della donna in seno “alla compagine associativa”.

E’ la valutazione della Corte di Cassazione, espressa nella sentenza (pubblicata ieri, lunedì 14 febbraio) con cui è stato rigettato il ricorso della libera professionista contro il verdetto del Tribunale del Riesame di Catanzaro, facendo scattare per lei, negli ultimi giorni di gennaio, la custodia preliminare in carcere. Il Gip Matteo Ferrante, accordando alla Procura antimafia le misure cautelari scattate il 3 maggio scorso, aveva riqualificato l’accusa per Bagalà in concorso esterno in associazione mafiosa, disponendone i “domiciliari”. Per parte sua, l’ufficio inquirente diretto da Nicola Gratteri ha insistito sull’impostazione iniziale, cioè che l’avvocata fosse organica alla cosca, ricorrendo al Riesame, che ha riconosciuto le ragioni dell’accusa.

Bagalà si era quindi rivolta alla Cassazione, chiedendo l’annullamento di quella decisione. Secondo la Suprema Corte, tuttavia, “l’ampiezza e la obiettiva rilevanza delle condotte di coinvolgimento dell’indagata nelle varie vicende imprenditoriali legate al padre e agli interessi della cosca” restituite dall’inchiesta e descritte “nelle convergenti propalazioni accusatorie dei plurimi collaboratori di giustizia oltre che desumibili dall’inequivoco tenore delle conversazioni intercettate”, sono tali da giustificare “logicamente l’apprezzamento di merito circa la qualificazione delle medesime condotte in termini di effettiva partecipazione ad associazione mafiosa”. Per Bagalà si sono così aperte le porte del carcere preventivo, in ragione della variazione della contestazione mossale.

Nel ricorso alla Corte (discusso nell’udienza dello scorso 25 gennaio), il difensore dell’avvocata Mario Murone aveva sottolineato, tra l’altro, “la mancanza di indicazioni precise a proposito del ruolo svolto dalla Bagalà in seno all’associazione”, nonché la “omessa considerazione del fatto che da oltre dieci anni la stessa risiede in Valle d’Aosta, facendo solo sporadici rientri in Calabria”. Ripercorrendo alcune delle evidenze investigative finite nel fascicolo del pm (per cui Maria Rita Bagalà era la “mente legale” della cosca), la Cassazione osserva, inoltre, che il Tribunale del riesame “ha sottolineato l’assenza di segnali univoci che attestino una rescissione dal contesto associativo nel quale la ricorrente ha operato”.

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