Processo Bccv, per la Cassazione mancava “la prova dell’abuso” compiuto da Perron

Pubblicata la sentenza con cui, lo scorso 15 gennaio, la Suprema Corte ha riscritto l'esito del processo sul trasferimento della filiale di Fénis dell'istituto di credito, annullando le condanne all'ex assessore e al già presidente della banca Linty.
Ego Perron con i suoi avvocati all'arrivo in Tribunale
Cronaca

La sentenza del 16 luglio 2019 della Corte d’Appello di Torino, che (come già accaduto al Tribunale di Aosta) aveva condannato l’ex assessore Ego Perron e i due ex presidenti della Banca di Credito Cooperativo Valdostana Marco Linty e Martino Cossard per induzione indebita a dare o promettere utilità? Per la Corte di Cassazione, che lo scorso 15 gennaio aveva riscritto l’esito del processo sul trasferimento della filiale di Fénis dell’istituto di credito, annullandola senza rinvio “perché il fatto non sussiste”, difettava “radicalmente nella individuazione dell’abuso induttivo”, presupposto del reato contestato agli imputati.

Lo si legge nella sentenza della sesta sezione penale della Suprema Corte, pubblicata in questi giorni. Ad impugnare il verdetto di secondo grado erano stati solo Perron e Linty (dopo essersi visti infliggere, rispettivamente, un anno ed otto mesi e sei mesi di reclusione, entrambi con sospensione condizionale), con lo stesso divenuto quindi definitivo per Cossard. L’inchiesta della Procura di Aosta e dai Carabinieri riguardava il progetto di spostare la filiale da una sede di proprietà della Banca a locali dell’allora Assessore regionale alle finanze, in affitto.

Secondo la tesi d’accusa, Perron, con l’obiettivo di ottenere un contratto di locazione per l’immobile (poi annullato per un vincolo d’uso dello stabile), si prodigò per far rieleggere i co-imputati negli organi sociali della banca, in vista dell’assemblea dei soci, nella primavera del 2015. Per la Corte di Cassazione, i magistrati di Torino avevano “escluso che la ‘forza contrattuale’ del Perron gli provenisse dalla posizione esponenziale rivestita nell’ambito dell’Union Valdôtaine, valorizzando invece” il suo ruolo “quale componente della Giunta regionale”.

In particolare, “in relazione alla funzione di vigilanza regionale sulla banca ed al suo potere di proporre un proprio candidato alle elezioni per la nomina di un consigliere e di un membro del collegio sindacale dello stesso istituto”. “Senonché di tale aspetto, posto a fondamento della potenza prevaricatrice del Perron – scrive ancora la Cassazione – non solo non v’è traccia nella accusa formulata dal pubblico ministero, ma risulta anzi sganciato da qualsiasi concreto supporto probatorio riferibile alla vicenda in esame”.

Manca, in sostanza, “la prova dell’abuso della qualità da parte del Perron”. La Suprema Corte osserva poi, “per completezza”, che “l’affermazione della sussistenza stessa di una condotta induttiva” risulta “del pari fondata su un ragionamento probatorio fragile, sulla deduzione (indimostrata) che la prova delle pressioni antecedenti la stipula” del contratto di locazione “si ricaverebbe dalle pressioni successive relative al superamento dei problemi riguardanti il vincolo di destinazione dell’immobile locato”.

Però, è il ragionamento degli ermellini, tale argomento “appare in realtà utilizzato per dare una definitiva connotazione alle ritenute anomalie che avrebbero preceduto la stipula del contratto di affitto, la cui valenza indiziante dell’ipotizzato abuso” si “esaurisce nel ricondurle alla realizzazione degli interessi del ‘potente assessore’in posizione di maggiore forza contrattuale”. La carenza di individuazione dell’abuso induttivo, agli occhi della Cassazione, è tale da assorbire “ogni altra questione” sollevata dai due ricorrenti (Perron era difeso dagli avvocati Andrea Bartolino e Fabio Fantini e Linty dal legale Enrico Grosso) e imporre l’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello.

Marco Linty

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