Sette giorni in rianimazione Covid a 42 anni: “Mi sentivo al sicuro, siamo in ottime mani”

Francesco Fida, presidente dello Stade Valdôtain Rugby, racconta la sua esperienza in terapia intensiva: “Medici e infermieri sono degli eroi. È stato un bagno di umiltà per dare il giusto valore alle cose”.
Francesco Fida e Silvia Roero
Società

Quarantadue anni compiuti da poco, un passato neanche troppo remoto come rugbista, un presente da presidente dello Stade Valdôtain di rugby, sempre attivo per promuovere lo sport a tutto tondo – e non solo la palla ovale – nella nostra regione. Francesco Fida non ha nulla dell’identikit di chi vorrebbe il Covid-19 attaccare gravemente “solo persone anziane e con patologie pregresse”, ma se l’è vista brutta ed ha passato 16 giorni in ospedale, di cui 7 in rianimazione, proprio nel periodo in cui il mondo del rugby italiano piangeva Massimo Cuttitta e Marco Bollesan. Un’esperienza che lo ha portato a riflettere sulla propria vita e sulla situazione in cui ci troviamo: “C’è un’organizzazione sanitaria perfetta, siamo in ottime mani”.

“Non so come mi sono ammalato, sono stato ricoverato otto giorni dopo”

“Era un periodo in cui facevo mille cose, tra lavoro, rugby e famiglia”, racconta Fida, “e non so come mi sono ammalato. Ero stanco da un po’, poi, dopo una notte travagliata, una mattina mi sono svegliato con 38° di febbre. Mi sono autoisolato in casa, il mattino dopo sono venuti a farmi il tampone e la sera ho avuto conferma della positività”. Come se non bastasse, al Covid-19 si aggiungono i calcoli renali, durati tre giorni. La situazione va pian piano peggiorando, il corpo non reagisce nella maniera giusta e dopo otto giorni (“ma ho rimosso tutto, ero convinto ne fossero passati due”) le cose precipitano e si rende necessario il ricovero.

“La mia grandissima fortuna è stata avere con me Silvia Roero, la mia vicina di casa che è anche rianimatrice di elisoccorso: ogni giorno veniva a visitarmi, anche per i calcoli. Una mattina, smontante notte, di concerto con l’Usca hanno deciso che era meglio portarmi in ospedale. Un’organizzazione pazzesca, sia le Usca che in ospedale: nel giro di poche ore ero in rianimazione, intubato con grande professionalità. Poi mi sono spento ed i miei ricordi partono dal giorno dopo”.

“Mi sentivo al sicuro: qui in Valle abbiamo la fortuna di avere degli eroi”

La prima persona che Francesco Fida vede appena sveglio è Aline, un’infermiera di Pollein: “Mi ha subito colpito positivamente la sua professionalità e la sua dedizione nel correre avanti e indietro per la rianimazione. Mi ha mostrato delle foto per spiegarmi cosa mi avevano messo: il catetere, i tubi nel naso per alimentarmi ed il sondino nel collo per i farmaci. Mi ha trasmesso sicurezza, mi sono sentito al sicuro”.

La giovane età ed il rugby sono stati d’aiuto – non a caso i membri dello Stade Valdôtain sono conosciuti come i Leoni – e Fida ha lottato, affidandosi totalmente ai medici ed ai sanitari che lo hanno curato. “Ho recuperato un po’ più velocemente, ma in rianimazione vedi delle cose che ti fanno riflettere, gente di una certa età che se la passa male. Qui in Valle d’Aosta abbiamo la fortuna di avere degli eroi: medici, infermieri, rianimatori e fisioterapisti, anche molto giovani, preparatissimi e con gli attributi. Quando sono stato spostato nel reparto Covid 1, dopo sette giorni, avevo paura, perché in rianimazione mi sentivo protetto, ma anche lì è stata la svolta: un medico di appena 31 anni, di cui non ricordo il nome perché uno degli effetti collaterali che ho è dimenticarmi le cose, mi ha tolto il catetere ed i sondini e mi ha rimesso in piedi in cinque minuti. Ho ricominciato a mangiare, e grazie ai fisioterapisti ho ripreso a camminare, ho consumato il corridoio, mi aiutava molto mentre c’era gente di una certa età che non poteva muoversi”.

Il passaggio al reparto Covid 3 è stata la chiusura del cerchio. Lì è nata l’amicizia con Italo, che verrà dimesso oggi: “Ci siamo aiutati tantissimo, facevamo merenda insieme. In ogni reparto c’era qualcuno della famiglia Stade, da Zaga e Frand a Elisa, oltre a Silvia che veniva a trovarmi ogni giorno. Tanti amici venivano alla finestra a salutarmi, ho sentito l’affetto e la vicinanza di cui avevo bisogno, anche solo attraverso messaggi sul telefono”.

“È stato un bagno di umiltà, un ritorno con i piedi per terra per dare il giusto valore alle cose”

Venerdì scorso Fida è finalmente uscito dall’ospedale, ed è ancora felice di testimoniare l’efficienza del sistema: “Mi hanno fatto il tampone al mattino, alle 16 è arrivato il risultato che era negativo e nel giro di un’ora mi hanno portato a casa in ambulanza e con l’ossigeno. L’Usca continua ad essere molto presente, ogni giorno mi chiamano per sapere come sto. Vorrei rassicurare coloro che, purtroppo, dovranno vivere la mia stessa esperienza: si può stare sereni, siamo in buone mani ed abbiamo la fortuna che le cose funzionano. Bisogna però tornare al più presto alla normalità, spero nei vaccini. In questo momento quello che mi pesa è pensare a mia figlia Clara, che è da un mese che è a casa e non può andare a scuola”.

Il recupero fisico sarà lungo, qualche camminata, ma la fatica si fa sentire nel tardo pomeriggio e la cura a base di cortisone, pur dando iperattività, provoca anche insonnia: “Stanotte ho dormito un’ora, ma già prima non dormivo molto. L’altro giorno è venuto Max a tagliare l’erba del prato, ha fatto tutto lui ma io ero più stanco di lui solo a guardarlo, ed in genere dopo le 17 la voce mi va via. Io che non stavo mai zitto…”.

Una sorta di “legge del contrappasso”, che però ha dei significati più ampi per Fida, che ha avuto molto tempo per riflettere: “Sembrerà un’assurdità, ma è un’esperienza che spero di non dimenticare troppo presto e di cui voglio fare tesoro. È stato come un bagno di umiltà, un ritorno con i piedi per terra per dare il giusto valore alle cose che abbiamo, alle persone che ci vogliono bene, al tempo che dobbiamo goderci”.

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