Chiuso il capitolo dedicato all’inchiesta “Egomnia”, su un ipotizzato scambio politico-mafioso alle elezioni per il rinnovo del Consiglio Valle nel 2018, il racconto degli accertamenti a carico dei cinque imputati (tre per associazione a delinquere di stampo mafioso e due per concorso esterno nel sodalizio) ha caratterizzato la seconda udienza del processo “Geenna” su infiltrazioni di ‘ndrangheta nella regione, in corso da ieri al Tribunale di Aosta. Si sono infatti susseguite le deposizioni degli investigatori dei Carabinieri, citati quali testimoni d’accusa dal pm Stefano Castellani della Dda di Torino.
Lo screzio per la “mancata ambasciata”
Alcuni degli episodi ripercorsi erano già emersi all’epoca del “blitz” del 23 gennaio 2019, in cui erano finite in manette sedici persone. E’ il caso dei viaggi in Calabria intrapresi da alcuni imputati. Ne ha parlato un maresciallo dell’Arma, spiegando che ne sono stati affrontati dal ristoratore Antonio Raso, da Roberto Alex Di Donato e dal consigliere comunale di Aosta sospeso Nicola Prettico, tutti presunti appartenenti alla “locale” del capoluogo regionale. Al riguardo, ha ricordato il testimone, in una intercettazione, Marco Fabrizio Di Donato (per gli inquirenti il capo della cellula ndranghetista) “parla di una mancata ‘ambasciata’ in Calabria da parte di Prettico” a seguito della quale il rapporto tra il fratello Roberto Alex e il consigliere comunale sospeso si è rotto.
L’“interesse” nelle comunali 2015
Il sottufficiale è quindi passato all’“interesse degli indagati per il sostegno ad alcune figure” riscontrato in occasione delle elezioni comunali di Aosta del 2015. E’ il filone investigativo in cui sono state messe a fuoco – tra intercettazioni e osservazioni – figure come Antonio Moro, “presente agli incontri che Bruno Nirta ha avuto ad Aosta, molto attivo nella parte politica”, oppure il dipendente di piazza Deffeyes Gianni Mongerod, definito dal militare il “trait d’union che Raso usa per arrivare a palazzo regionale”, ed ancora Giuseppe Petullà, “che da sempre fa politica, era nel Psi alcuni anni fa” e risulta avere “conoscenze tra i politici regionali” e Salvatore Addario, attuale presidente della Cna e “attivo in campo politico”, che contatterà l’oggi sindaco di Aosta Fulvio Centoz da parte di Raso (che però lascerà “La Rotonda”, facendo cadere la “proposta di aiuto” del ristoratore).
Ai Carabinieri saltano all’occhio anche alcuni “viaggi” dalla Calabria alla Valle, in quel periodo. Ad arrivare è anzitutto Vincenzo Marrapodi, ex sindaco di San Giorgio Morgeto (nel frattempo sciolto per infiltrazione mafiosa a seguito delle risultanze dell’indagine valdostana), “molto attivo e abbiamo visto che è venuto per sostenere un candidato”. Durante quel soggiorno, “si è incontrato con Marco Fabrizio Di Donato”. Sale nell’estremo nord-ovest anche l’allora parroco del paese calabrese, “preceduto da contatti telefonici con Nicola Prettico”. Due, in tutto, le visite accertate del sacerdote. La politica, comunque, è il pane quotidiano della “locale”, secondo gli inquirenti: nel 2016 alcuni indagati ricevono la visita di esponenti delle due liste che si fronteggiano alle amministrative del comune di San Giorgio.
Fiumi di droga tra Italia e Spagna
L’udienza, attraverso la testimonianza di un Colonnello dei Carabinieri già in servizio al Raggruppamento Operativo Speciale di Torino, ha quindi virato sul “ramo” dell’inchiesta che è al centro del procedimento in corso dinanzi al Gup del capoluogo piemontese (ripreso proprio oggi dopo la pausa per l’emergenza sanitaria), quello legato ad un traffico internazionale di stupefacenti tra la Spagna e il Piemonte. L’interessamento del Ros, nel gennaio 2016, nasce da alcune intercettazioni effettuate dei militari aostani, che (unite al patrimonio informativo raccolto in pregresse inchieste, come “Gerbera”, tra il 2007 e il 2009) conducono all’ipotesi che “i fratelli Nirta e i fratelli Di Donato fossero attivi” nel mercato della droga.
Gli accertamenti partono quindi pedinando Bruno Nirta (oggi a processo nel capoluogo piemontese, con rito abbreviato), che i militari scoprono occupare “in gran segreto” un alloggio a Torino. “Nessuno lo sapeva”, ha detto l’ufficiale. Registrato che “si muoveva con molta circospezione” e che sino a quel momento aveva “incontrato solo figure a noi note dell’ambiente delinquenziale”, ad un certo punto gli inquirenti lo notano sempre accompagnato da un ragazzo sconosciuto alle forze dell’ordine, “salvo la sera quando si ritiravano”. Viene identificato in Daniel Panarinfo, un giovane di origini francesi che lo accompagnerà anche in alcuni viaggi in Spagna, sempre monitorati dai Carabinieri e individuati nell’approvvigionamento di stupefacente.
Panarinfo viene sottoposto a fermo di polizia, per il concorso nella detenzione di 1,2 kg di droga. Gli inquirenti avevano già notato segni di insofferenza da parte dell’uomo rispetto al sottobosco in cui si muoveva e, in quell’occasione, trovano la conferma alla sensazione: “subito, nella notte decide di intraprendere un percorso di collaborazione”. Alle sue dichiarazioni è dedicata una cospicua sezione dell’ordinanza di custodia cautelare dell’indagine “Geenna” e il pm Castellani lo ha citato anche tra i collaboratori di giustizia da sentire nel procedimento aostano.
La morte irrisolta di Giuseppe Nirta
Oltre a Bruno, gli inquirenti tengono d’occhio anche suo fratello, Giuseppe Nirta (classe 1965). Nell’aprile 2017 si accorgono che rientra dalla Spagna e va in Calabria. Pochi giorni dopo, continua il testimone, “si palesa a Torino”. Si incontra con un avvocato piemontese poi arrestato nell’inchiesta e a processo dinanzi al Gup Alessandra Danieli, sia nel suo studio, sia – “dopo aver lasciato lì entrambi i cellulari” – camminando per strada con lui. Poco dopo, il 30 aprile, “è l’ultima volta che tracciamo il cellulare di Nirta, alla frontiera di Ventimiglia” e “lo consideriamo di ritorno in Spagna”. Poco più di un mese e Giuseppe “viene ammazzato a Murcia, nella sua abitazione”. Chi lo uccide gli spara dei colpi di arma da fuoco e lo accoltella.
“Una modalità che ha qualche significato particolare?”, s’interroga a voce alta il presidente Eugenio Gramola. “L’accoltellamento è qualcosa di più intimo – risponde il militare -. Può essere il segnale, per lui e per altri. E lo è stato, perché nei giorni successivi il fratello Bruno si dà alla macchia. Non siamo più riusciti a tracciarlo per diversi mesi”. Evidentemente, “a lui il segnale era arrivato chiaro”. Dopo l’omicidio, i Carabinieri “riattualizzano” (giacché scadute nel frattempo) le intercettazioni a carico di varie persone, inclusi dei collaboratori spagnoli della vittima, l’aostano Francesco Mammoliti (altro presunto partecipe della “locale” e nel processo torinese) e Marco Fabrizio Di Donato.
Le indagini sull’omicidio
Contemporaneamente, il Ros si coordina con l’autorità giudiziaria e con la polizia di Murcia. Si tiene anche una riunione operativa in Spagna. “Di fatto, – evoca il militare – abbiamo un po’ scandagliato quello che poteva essere il movente, o dove potesse essere maturato l’agguato”. Alcune ipotesi riguardavano un italiano residente nella penisola iberica, “considerato molto importante nel narcotraffico” e “altre due persone stanziali in Costa Brava”. Gli spagnoli perquisiscono casa di uno di questi possibili obiettivi “trovando un’arma di provenienza illecita”, ma non risulta “compatibile con i colpi sparati nell’omicidio”.
Altri sospetti degli inquirenti spagnoli riguardano una persona detenuta, che era però in permesso proprio nel giorno dell’uccisione, non lontano da dov’è avvenuta. Si ripresenta però in carcere puntuale con lo scadere del tempo concessogli, ma non appena la Guardia Civil inizia ad approfondirne la figura, “sfruttando un permesso premio in un week-end successivo si è dato alla macchia”. Verrà rintracciato, ed arrestato in Albania. Sarà incriminato per l’evasione e “abbiamo saputo informalmente che non c’erano contestazioni a suo carico” per l’omicidio. Al momento, la morte di Giuseppe Nirta resta senza risposta.
Di Donato già in “Minotauro”
L’ufficiale ha quindi evocato come, nel corso dell’indagine “Minotauro” (sull’infiltrazione di ‘ndrangheta in Piemonte) gli inquirenti si fossero già imbattuti sia nello stesso Giuseppe Nirta, sia in Marco Fabrizio Di Donato. Quest’ultimo “Ha partecipato – è continuata la deposizione – a quelle che per gli investigatori sono passate come riunioni di ‘ndrangheta molto importanti, avvenute in un ristorante a Cuorgné”, nel canavese. La prima il 10 giugno 2007, “con tutte le più alte cariche delle undici locali del torinese”.
La volta dopo, l’8 luglio, nel giro di meno di un mese, quando i commensali “tornano nello stesso luogo per festeggiare il compleanno del capo locale”. La festa si protrae e, a sera, un nucleo ristretto di individui (“tra i quali Di Donato”) si trasferisce nell’abitazione del festeggiato. Succedeva sette anni prima dell’inizio delle investigazioni per “Geenna”.
Le “pressioni” di Raso sulla stampa
Prima della chiusura dell’udienza, una giornalista valdostana ha testimoniato in merito ad alcune “pressioni” ricevute da Raso nel suo ristorante, che forniva servizio mensa all’azienda per cui la donna lavora. In merito ad alcuni servizi di cronaca giudiziaria realizzati in quel periodo, il ristoratore si è avvicinato“ha sgranato gli occhi e mi ha bisbigliato all’orecchio: ‘quella cosa lasciala stare’, ripetendolo per tre volte”. La circostanza era stata descritta dalla donna in un post su un social network nel giorno del “blitz” dell’operazione “Geenna”.
Un’attitudine che “non mi ha intimorita”, ma “mi ha dato un senso di fastidio”, rinnovato quando Raso la chiama nel 2017 per convocare la “conferenza stampa” di Vincenzo Furfaro, un imprenditore raggiunto da interdittiva antimafia e in quel periodo assolto in un procedimento penale in cui era coinvolto (“l’ho trovato strano, perché la cosa che accade di solito quando si interloquisce con persone raggiunte dall’autorità giudiziaria è che sia l’avvocato a contattarci”). Da lì, “non ho più frequentato il suo ristorante”. L’udienza è stata rinviata a mercoledì prossimo, 10 giugno, per la prosecuzione dell’esame dei testimoni d’accusa citati dal pm.