“A livello di politica non mi sono mai interessato, perché non mi sono mai candidato in nessun tipo di lista”. E’ la spiegazione fornita, durante l’udienza di oggi, venerdì 24 luglio, del processo “Geenna” su infiltrazioni di ‘ndrangheta in Valle d’Aosta, da Alessandro Giachino, il croupier del Casinò de la Vallée a giudizio quale componente della “locale” al centro delle indagini della Dda di Torino e dei Carabinieri.
Esaminato per circa un’ora, Giachino ha aggiunto che “campagna elettorale credo di non averne mai fatta per nessuno”. Tutt’al più, “ho dato il mio voto, quello di mia moglie; posso aver chiesto alla famiglia di mia moglie e alla mia di dare un aiuto a dei miei amici”. I legami tra il 42enne di Aymavilles e il pianeta politico emergono, in particolare, dall’inchiesta “Egomnia”, nata come “costola” dell’attuale procedimento e relativa al condizionamento delle “regionali” del 2018 da parte della ‘ndrangheta.
“Miei amici che, – ha però precisato Giachino – siccome sono miei amici, non sono amici né di Di Donato, né di Prettico, né di Raso, né degli altri miei co-imputati, perché sono amicizie che io coltivo da anni”, che “tra l’altro non hanno niente a che fare con loro, non si sono mai visti, non si conoscono neanche”. L’unico degli imputati di “Geenna” che “ha avuto mezzo rapporto, nel senso che ha avuto un incontro” – di cui però non “vorrei parlare perché effettivamente poi entriamo nel caso Egomnia” (sul quale i difensori degli imputati avevano preannunciato il silenzio dei loro assistiti) – “che, è stato Robertino Alex” Di Donato (condannato a Torino, come partecipe della “locale”, a 5 anni e 4 mesi di carcere).
“Con Viérin 30 anni di conoscenza”
Il riferimento è all’incontro documentato dai Carabinieri, il 4 maggio 2018, tra l’allora presidente della Regione Laurent Viérin e Roberto Alex Di Donato, organizzato a casa di Giachino. Con l’“enfant prodige”dell’autonomismo progressista, ha spiegato l’imputato, “c’è un’amicizia datata diciamo, si parla di 30 anni di conoscenza, non si parla di un’amicizia nata per le elezioni o un’amicizia, come si vuol far passare, solo per uno scambio di voti, è un’amicizia che si parla veramente di anni”.
Con il politico di Jovençan “ci conosciamo – ha aggiunto – dall’età di 13-14 anni, mia madre ha guardato sua nonna, io sono stato con sua madre nel ’98 per un mese e mezzo a casa sua, che mi cucinava sua madre, per il motivo che stavamo facendo dei lavori ed eravamo in Francia, a Bourg-Saint-Maurice”. “Capitava sovente – ha osservato ancora l’imputato – che con Laurent ci vedevamo con degli aperitivi, al suo bar, è capitato che abbiam mangiato qualcosa assieme”.
“Testolin, il mio vicino di casa”
Quanto all’attuale presidente della Regione Valle d’Aosta, Renzo Testolin, “è mio vicino di casa e mi ha visto crescere, mi ha visto bambino. Abbiamo sempre avuto ottimi rapporti”. “Tutt’ora che sono in galera – è andato avanti Giachino – so che comunque per Aymavilles, siccome sono una persona credo che mi vogliano bene, chiedono sovente di me e la sua famiglia, non lui direttamente, ha chiesto parecchie volte a mia madre e a mio padre come stessi”. Rispondendo al pm Valerio Longi, Giachino ha detto anche dell’ex consigliere regionale dell’Union Valdôtaine Luca Bianchi, con il quale “abbiamo un’amicizia di 20 anni, 20 anni di Casinò e 20 anni che siamo amici”.
Di Donato “ogni tanto ‘banfava’”
Esaurita questa parentesi, l’imputato è giunto all’amicizia con Marco Fabrizio Di Donato, anch’egli condannato in abbreviato a Torino quale presunto vertice della consorteria ‘ndranghetista aostana. “Mi parlò di organizzazioni criminali in generale. – sono state le parole in aula – Parlando di droga diceva che spacciare era un reato odioso e l’unico che poteva sembrare meno grave erano le truffe”. In quella discussione, “mi disse che in Valle d’Aosta non c’è la ‘ndrangheta” e “aggiunse anche che se qui trovavano un valdostano che aveva commesso degli illeciti non veniva trovato come un calabrese”. Per Giachino, Di Donato “era una brava persona, ma ogni tanto faceva delle banfate”. Oltretutto, “era un gran lavoratore e non ho mai avuto sentore che potesse commettere illeciti o far parte di qualche associazione”.
Minacce e lestofanti
L’accusa ha quindi letto in aula alcune intercettazioni, con protagonisti Marco Di Donato e suo fratello Roberto Alex. Quest’ultimo, in una telefonata, sostiene di voler aggredire fisicamente una parente di una persona con cui aveva avuto un diverbio. In un ambientale, invece, l’altro fratello “si vantava dei lestofanti conosciuti in carcere e dei suoi parenti, anche latitanti”. “Secondo lei Giachino, – è stato l’’affondo’ del sostituto procuratore Longi – aveva voltato pagina”?
“Non mi ha mai chiesto di commettere reati e io non ne ho mai commessi – è stata la risposta – L’ambientale è brutto, ma lui faceva un po’ il banfone. A me sembrava che c’erano tante chiacchiere e pochi fatti. Tra gli imputati c’era chi si atteggiava ma poi in realtà…”. Motivazioni che non sono state giudicate sufficienti dal pubblico ministero: “visto che lei non era un delinquente, non ha precedenti, perché non è scappato a gambe levate da quell’ambiente?”. C’è “qualcosa che non torna”, visto che “si parla di delinquenti che si vantano di esserlo”.
“Non ho parlato di reati con Nirta”
“Non è che ero un delinquente, io non sono un delinquente. – ha ribattuto Giachino – Marco Di Donato, dopo aver pagato i debiti con la giustizia, era un gran lavoratore e un ottimo padre di famiglia. Io non ero preoccupato”. A presentare il croupier e il presunto “boss” fu un’altro imputato, Nicola Prettico, ma prima di conoscere Di Donato “non sapevo dei suoi precedenti penali”, ne “ho saputo dopo che me lo ha detto lui”. Un giorno “ero a pranzo da lui ed è arrivato Bruno Nirta con Francesco Mammoliti (entrambi condannati a Torino, ndr.)”. In quella circostanza “ci siamo presentati e abbiamo parlato del più e del meno, ma non di associazioni, o di reati”.
Non so del “taglio della coda”
Venendo alla discussione sul “taglio della coda”, Giachino ha riferito di aver letto l’intercettazione, per poi affermare “stavano scherzando e, tra l’altro, io ero presente, ma entravo e uscivo dalla cucina, quindi non ho sentito quella frase”. “Io non sapevo cosa volesse dire, – è stata la conclusione dell’imputato – quindi se avessi sentito avrei chiesto spiegazione, visto che si parlava di me”. L’udienza è, ora, nella sua fase conclusiva, con l’avviato esame dell’imputato Marco Sorbara, il consigliere regionale sospeso accusato di “concorso esterno” nella “locale”.