False testimonianze in “Geenna”: un’assoluzione, due condanne e un patteggiamento
Un’assoluzione, due condanne e un patteggiamento hanno chiuso oggi l’udienza preliminare, dinanzi al Gup del Tribunale di Aosta, sulle presunte false testimonianze nel processo Geenna, su infiltrazioni di ‘ndrangheta in Valle d’Aosta. L’assoluzione, con la formula “per non aver commesso il fatto”, è scattata per l’ex dirigente del Casinò di Saint-Vincent Walter Romeo. I fratelli artigiani Daniele e Luciano Cordì sono stati condannati a 1 anno e 6 mesi ed a 1 anno e 4 mesi di carcere (pena sospesa). La quarta persona a giudizio, Pasqualina Macrì, dopo la richiesta avanzata nelle precedenti battute del giudizio, ha patteggiato un anno di reclusione (pena sospesa).
Per i tre imputati che avevano scelto di essere giudicati con il rito abbreviato, nella scorsa udienza, il 24 marzo, il pm Luca Ceccanti aveva chiesto di condannare ognuno ad un anno e quattro mesi di reclusione. Macrì e i fratelli Cordì erano difesi dall’avvocato Filippo Vaccino, mentre ad assistere Romeo era l’avvocato Oliviero Guichardaz. Il rito ordinario di primo grado di Geenna, svoltosi al Tribunale di Aosta da giugno a settembre del 2020, aveva visto sfilare in aula, tra quelli citati dall’accusa (sostenuta dai pm della Dda di Torino Stefano Castellani e Valerio Longi) e dai difensori dei cinque imputati, un centinaio di testimoni.
Stando alle indagini, Macrì avrebbe fornito – in aula – una falsa giustificazione per aver ricevuto 100 euro, a seguito dell’arresto di suo figlio Luigi Fazari, da parte del ristoratore Antonio Raso, imputato nel processo e condannato sia nel primo grado, che in appello quale figura di rilievo della “locale” di Aosta. Nelle “spiegazioni offerte da Raso con il sostegno della teste”, quei soldi erano destinati “alle brioches dei figli dei Fazari”, nipoti dell’anziana, ma gli inquirenti li interpretano quale “assistenza ai detenuti” dall’associazione criminale.
I fratelli Daniele e Luciano Cordì erano stati chiamati a testimoniare rispetto allo “sgarbo che sarebbe stato commesso” ai danni di un artigiano cognato di Raso, che non avrebbe ricevuto lavori in un cantiere edile a Torgnon, “procurato” ai due dal ristoratore. Secondo i giudici del processo “Geenna”, che avevano segnalato alla Procura le loro deposizioni (così come quelle degli altri due imputati), avevano ricondotto i fatti contestati alla normalità, o manifestato reticenza, perché destinatari (e sensibili ad esso, per la Procura) di “un preciso avvertimento di natura mafiosa”.
Romeo, infine, citato a deporre al processo sulla mancata restituzione di un orologio Bulgari da 2.500 euro, di sua proprietà, finito – era emerso dalle investigazioni – nelle mani di Marco Fabrizio Di Donato (altro imputato condannato in entrambi i gradi di giudizio come capo della cellula ‘ndranghetista aostana) aveva mostrato, agli occhi dei giudici, “una sconcertante arrendevolezza” e un comportamento “insolitamente remissivo”, spiegabili dai magistrati solo dal fatto che “egli tuttora teme i fratelli Di Donato” e un altro imputato (e condannato) in Geenna, il dipendente del Casinò Alessandro Giachino. Per lui, però, il Gup non ha sposato la tesi d’accusa, propendendo per l’assoluzione.