Da parte di Antonio Raso, il ristoratore condannato a 13 anni di reclusione nel primo grado del processo “Geenna”, perché ritenuto figura di rilievo della “locale” di ‘ndrangheta al centro delle indagini, è esistente “una pericolosità sociale qualificata risalente quanto meno al 2009”. Inoltre, “l’acquisizione, o quanto meno l’alimentazione” di una serie di beni del suo patrimonio (già nel sequestro preventivo scattato nel 2019) è avvenuta “in costanza di detta pericolosità ed in condizioni di palese sproporzione economico-reddituale rispetto al valore dei medesimi”.
Per questo, il Tribunale di Torino – con un decreto depositato la settimana scorsa (che muove dalla decisione assunta a seguito dell’udienza del 12 gennaio di quest’anno) – ha deciso di accogliere la richiesta avanzata dalla Direzione Investigativa Antimafia, sottoponendo il 53enne nato a San Giorgio Morgeto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per quattro anni (anche se è ancora in carcere, in forza della misura cautelare richiesta dalla Dda di Torino ed eseguita dai Carabinieri la notte del 23 gennaio 2019) e disponendo la confisca di diversi beni a lui intestati o ricondotti.
Tra questi figurano le quote di sua titolarità della pizzeria “La Rotonda” ad Aosta, un alloggio ed un’autorimessa, due autoveicoli e due conti correnti. Il decreto indica che la condanna comminata nello scorso settembre a Raso “corrobora il compendio univocamente orientato nel senso della pericolosità sociale” dell’uomo, ma nel corso della discussione i suoi difensori (gli avvocati Ascanio Donadio e Pasquale Siciliano) l’avevano opinata sostenendo l’“assenza di contestazioni nei suoi confronti quanto alla commissione di reati-fine dell’associazione”, nonché l’“asserita interruzione dei rapporti con i coimputati quantomeno dall’anno 2017”.
Inoltre, gli avvocati del ristoratore avevano confutato la tesi della Dia sottolineando la “risoluta dichiarazione di condanna dell’abito mentale e delle dinamiche operative ndranghetiste espressa nel corso del dibattimento di Aosta” (esaminato durante l’udienza del 23 luglio scorso aveva dichiarato: “la ‘ndragheta è la cosa più schifosa”). Per i giudici della Sezione misure di prevenzione, tuttavia, l’asserzione difensiva è inesatta, “posto che tra le finalità del sodalizio criminoso” su cui hanno indagato i militari del Reparto operativo del Gruppo Aosta, “promosso, organizzato e diretto dal Raso”, vi era “anche l’attività finalizzata a procurare a sé o ad altri voti in occasione di competizioni elettorali”.
Tant’è che ai magistrati “non sembra il caso di ricordare” come la condanna inflitta dal Tribunale aostano includa anche “il delitto di scambio elettorale politico-mafioso coinvolgente” l’ex consigliere regionale (cui sono stati inflitti, sempre nel processo di Aosta, 10 anni per concorso esterno nel sodalizio) Marco Sorbara (mentre per l’imputazione concernente le elezioni comunali a Saint-Pierre era stato assolto). Dopodiché, si legge nel decreto, “non sarebbe certo l’eventuale allentamento dei rapporti con i coimputati” nell’anno prima dello scattare delle misure cautelari “elemento idoneo a dare prova di un ripudio definitivo dell’appartenenza all’organizzazione ‘ndranghetista”.
Quanto, poi, all’affermazione pronunciata nel processo, essa viene giudicata “ancora più irrilevante”, anche perché “avvenuta, potrebbe dirsi, ‘a costo zero’ a dibattimento”. Peraltro, i giudici torinesi “retrodatano” al 2009 la pericolosità riconosciuta a Raso e ciò perché, seppur l’inchiesta Geenna riguardi fatti dal 2014 in poi, “gli indici probatori puntualmente riportati dallo stesso Tribunale di Aosta” sulla “risalente radicazioni di metastasi ‘ndranghetiste in quel territorio rendono vieppiù inverosimile una repentina ascesa del Raso al ruolo motivatamente riconosciutogli” nella sentenza.
“Tali pregresse metastatizzazioni ostavano – è scritto nel decreto – all’improvvisa comparsa sul proscenio di un individuo con ruolo apicale sfornito di un robusto accreditamento da spendere anche con la ‘casa madre’, a sua volta acquisibile solo attraverso un percorso temporalmente prolungato, scandito pure” dagli “incontri, avvenuti negli anni 2011 e 2012, presso la pizzeria” di Aosta. Relativamente alla domanda di confisca dei beni, le difese di Raso hanno prodotto una consulenza tecnica, ma il Tribunale ritiene che, pur rivedendo i conteggi tenendo conto di alcuni ragionamenti del professionista, “ne residuerebbe pur sempre una rilevante sperequazione patrimoniale a carico” del condannato (e del suo nucleo familiare).