‘Ndrangheta e politica, la “locale” voleva “prendere il potere e governare la Valle”

Un ampio capitolo della sentenza del processo “Geenna” dinanzi al Gup di Torino Alessandra Danieli è dedicato all’infiltrazione delle istituzioni valdostane, attuata dai condannati - si legge - per ottenere “utilità e vantaggi illeciti”.
Blitz anti 'ndrangheta dei Carabinieri
Cronaca

La “locale” di ‘ndrangheta di Aosta finita al centro del processo “Geenna” aveva in campo politico un “programma criminoso” dall’obiettivo ben preciso: “prendere il potere e governare la Valle d’Aosta”. A metterlo nero su bianco è il Gup del Tribunale di Torino Alessandra Danieli, in un ampio capitolo delle motivazioni alla sentenza (depositate di recente) con cui il 17 luglio scorso ha condannato quattro presunti componenti dell’associazione criminale in carcere dal blitz dei Carabinieri del Reparto operativo scattato nella notte del 23 gennaio 2019, a seguito delle indagini della Dda del capoluogo piemontese, e giudicati con rito abbreviato.

Parliamo del “coordinatore” Bruno Nirta (62 anni, San Luca), del “capo” Marco Fabrizio Di Donato (51, Aosta), di suo fratello e “braccio destro” Roberto Alex Di Donato (43, Aosta) e del “logista” Francesco Mammoliti (49, Saint-Vincent), ai quali sono stati inflitti, in primo grado, un totale di 32 anni e quattro mesi di carcere. L’infiltrazione del campo istituzionale, che partiva con il “procacciare voti per determinati candidati”, era mirata – si legge – a “favorire ditte e società legate o vicine all’organizzazione per ottenere lavori pubblici, nonché aiutare singoli cittadini vicini al sodalizio” con “l’ottenimento di posti di lavoro o di facilitazioni nella soluzione di questioni amministrative”, oppure ancora attraverso “l’assegnazione di sussidi e di immobili di edilizia residenziale pubblica”.

Il sostegno “plurimo”

Per tagliare tale traguardo i sodali avevano sviluppato una tecnica basata sulla dissimulazione dei loro intenti: “appoggiare più candidati, appartenenti a diversi partiti politici”. Una “strategia” collaudata alle elezioni comunali del 2015 (in particolare nei comuni di Aosta e Saint-Pierre, ove vennero eletti i due assessori condannati in settembre al Tribunale di Aosta per concorso esterno nell’associazione, Marco Sorbara e Monica Carcea) ed ipotizzata dagli inquirenti in più grande stile alle regionali del 2018 (dopo una “prova di forza” alle politiche dello stesso anno), tanto da meritare un interesse investigativo specifico, confluito nell’indagine “Egomnia” non ancora chiusa (sempre della Dda torinese), su un’ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso.

Meglio candidati “di scarsa esperienza”

Scommettendo su più tavoli contemporaneamente, sottolinea il giudice Danieli, alla “locale” era possibile assicurarsi “l’inserimento nel contesto amministrativo di riferimento (Comune o Regione) di più” persone disposte “a compiacere le richieste in termini di utilità e vantaggi illeciti provenienti” dalla “locale”. Attenzione, non sempre la scelta dei “cavalli” su cui puntare cadeva “su soggetti dotati di carisma politico e di autonoma forza elettorale”, essendo “elevato l’interesse a sostenere” anche candidati “di scarsa esperienza”, in quanto “ritenuti meglio gestibili e manovrabili una volta eletti”.

Per gli inquirenti, infatti, assurgono al ruolo di vero e proprio “manifesto dell’infiltrazione” le parole di Marco Fabrizio Di Donato, intercettato il 4 marzo 2016 nella cucina di casa sua: “…pinco pallino che se ne fotte l’importante è che portiamo il numero… anzi ti dico una cosa… più è sconosciuto… più gli dimostri… portato”. Nella traduzione del Gup dal vernacolo ‘ndranghetista,  “se il candidato che il sodalizio ha scelto di appoggiare è sconosciuto”, più facile risulterà “dimostrare il numero di voti a lui procurati” e, di conseguenza, “rendere conto al politico dell’appoggio promesso e del relativo risultato”.

Il “partecipe” eletto

La posta in gioco era “del tutto indipendente dai profili ideologici e programmatici dei diversi colori politici”. Per la “locale” contava solo “accordarsi con politici a sé vicini, i quali”, dopo eletti, avrebbero preso coscienza di esserlo stati “anche grazie all’appoggio della cosca e, una volta insediatisi nei ruoli strategici delle istituzioni locali”, non sarebbero riusciti “a tirarsi indietro a fronte delle segnalazioni, richieste di aiuto o di favori”. Nel caso di Nicola Prettico – indicato come esemplificativo dalla sentenza – la “locale” sarebbe andata anche oltre la “vicinanza”, facendo eleggere al Comune di Aosta, nella tornata del 2015, direttamente uno dei suoi “partecipi” (condannato nel dibattimento ordinario ad 11 anni di reclusione).

Un “ruolo centrale nella tessitura delle relazioni tra il sodalizio e gli esponenti politici incaricati di ruoli di rilievo a livello delle amministrazioni locali” viene attribuito nelle 894 pagine delle motivazioni del verdetto torinese ad Antonio Raso, il ristoratore titolare della pizzeria “La Rotonda”, anch’egli ritenuto colpevole dal Tribunale di Aosta di associazione a delinquere di tipo mafioso (infliggendogli 13 anni di carcere). Al riguardo, le motivazioni riprendono una frase ascoltata dai Carabinieri del Nucleo investigativo il 27 aprile 2015, nel pieno della campagna elettorale per l’Hôtel de Ville.

“Tu hai degli amici…”

A parlare è un “procacciatore di voti” attivo nell’ambito della comunità calabrese, non emerso dalle investigazioni quale vicino alla “locale”, che esclama a Prettico, nel corso di una telefonata che l’allora candidato dell’Union Valdôtaine gli aveva fatto per “un saluto”: “no, no tu non hai bisogno di buone parole mie, te l’ho detto tu stravinci, tu hai degli amici che ti appoggiano che ti hanno messo in certe insenature che non c’entra nemmeno, né io e né altri ci possiamo entrare…”. “È evidente – per il giudice – il riferimento all’appoggio che Raso e Di Donato gli hanno garantito”, in quella tornata elettorale.

Nelle parole dell’uomo, il magistrato legge chiaramente una allusione “al fatto che l’appoggio provenga da un gruppo percepito all’esterno come dotato di una capacità di affermazione sul territorio che nessuna altra entità gode, grazie alla sua capacità di convogliare interessi politici e consensi elettorali non visibili”. In sostanza, quelle parole evocano “la forza di intimidazione che viene percepita all’esterno e riconosciuta come caratteristica del sodalizio”. Uno dei requisiti (assieme, tra l’altro, al controllo del territorio, alla condizione di assoggettamento esterno) individuati dalla sentenza quali presupposti dell’esistenza di una “locale”. Detto in maniera ancora più chiara, della ‘ndrangheta.

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