Le sue parole nell’aula bunker delle Vallette non erano passate inosservate l’11 luglio 2020, quando alle ultime battute del processo Geenna, allora in primo grado, aveva chiesto a voce alta “che non mi venga cucito addosso qualcosa che non è la mia misura”. Oggi, quando il procedimento è giunto in Corte d’Appello a Torino, Marco Fabrizio Di Donato, il 51enne condannato a 9 anni di carcere perché ritenuto il capo della locale di ‘ndrangheta di Aosta, è tornato a rendere dichiarazioni spontanee e anche stavolta sono destinate a far discutere.
Nel respingere le accuse mossegli, affermando di non avere mai fatto parte di consorterie criminali, di non essere un mafioso, né uno ‘ndranghetista, ha sottolineato che l’unica famiglia che ha è quella composta dalla moglie e dai figli. Di Donato ha quindi dipinto il processo culminato nella sua condanna (in primo grado aveva scelto il rito abbreviato, dinanzi al Gup di Torino, e quello di oggi, iniziato il 18 maggio scorso) è il secondo grado per quel gruppo di imputati) come basato su congetture, illazioni ed ipotesi derivanti da intercettazioni parziali, che non restituirebbero la verità.
Il 51enne – che dal 23 gennaio 2019 (quando scattò il blitz dei Carabinieri del Reparto Operativo del Gruppo Aosta) è detenuto in Piemonte – sostiene che le discussioni finite nelle carte riguardassero semplicemente degli amici, con cui intratteneva frequentazioni quotidiane, anche con i figli. Quanto ai collaboratori di giustizia sentiti nel processo Geenna (in tutto tre, che si erano soffermati su vari aspetti della “locale” del capoluogo, tra i quali Daniel Panarinfo e Domenico Agresta) per Di Donato non si va oltre il rango di persone che lui non conosce e che non lo conoscono.
Dichiarazioni tali da scaturire la replica della Procura generale, che ha definito “inaccettabile” l’ipotesi – sentita nelle dichiarazioni spontanee – che le intercettazioni possano essere state rappresentate parzialmente dagli inquirenti, al fine di danneggiare gli imputati. Dopo il presunto “boss”, ha proceduto all’ arringa l’avvocato di colui cui in primo grado erano stati inflitti 12 anni e 8 mesi quale “coordinatore” della “locale” di Aosta, il 62enne di San Luca (Reggio Calabria) Bruno Nirta, visto nelle investigazioni come “liaison” con la influente famiglia calabrese della ‘ndrina La Maggiore.
Il suo legale, Luigi Tartaglino, ha posto l’accento su come nel periodo dell’inchiesta della Dda di Torino (inizavviata ata nel 2014) il suo assistito abbia avuto un unico incontro in Valle, con i suoi cugini primi. Secondo l’accusa si tratta di figure di spicco della cellula ‘ndranghetista del capoluogo, ma la tesi difensiva è che quella riunione non fosse altro che “un saluto” tra parenti, tanto che è avvenuto in prossimità delle festività natalizie. Un’occasione – ha sottolineato l’avvocato – che non significa essere capi, o “adepti” della ‘ndrangheta, tanto che Nirta non avrebbe avuto più contatti con nessuno di costoro e non sarebbe più tornato ad Aosta.
L’udienza, che ha visto anche la discussione della difesa di Roberto Alex Di Donato (altro presunto “partecipe” della “locale”, condannato a Torino a 5 anni e 4 mesi, assistito dagli avvocati Anna Chiusano e Wilmer Perga), è ripresa nel pomeriggio, dopo una breve pausa. Sono in programma le aringhe di altri avvocati, tra i quali quello dello stesso Marco Fabrizio Di Donato. La sostituta pg Elena Dalosio, lo scorso 26 maggio aveva chiesto alla Corte di confermare le condanne inflitte dal Gup in primo grado. Il prossimo appuntamento è per il 1° luglio: in quell’occasione si riprenderà dalle difese che debbano ancora completare, o dalle eventuali repliche e controrepliche delle parti. Per allora è comunque attesa la sentenza.