La Valle d’Aosta? Una regione in cui, ancor prima di valutare l’esistenza di una “locale”, è “dato comprendere che la ‘ndrangheta”, attraverso vari episodi nel tempo, si è “procurata una fama criminale” e già “rivela la preferenza a risolvere privatamente, se del caso con l’uso della violenza, le questioni che potessero sorgere, evitando di interessare di queste la Polizia o la magistratura”.
E’ la valutazione sul contesto locale contenuta nelle 458 pagine delle motivazioni, depositate venerdì 11 dicembre, delle cinque condanne inflitte, lo scorso 16 settembre, dal Tribunale di Aosta agli imputati del processo “Geenna”. Una realtà in cui, secondo i giudici Eugenio Gramola, Marco Tornatore e Maurizio D’Abrusco, gli imputati hanno trovato terreno fertile per realizzare i loro obiettivi criminali.
Gli imputati e le condanne
Quel giorno, il ristoratore Antonio Raso è stato condannato a 13 anni di carcere, i dipendenti del Casinò Nicola Prettico e Alessandro Giachino a 11 ciascuno, per aver creato e condotto nel capoluogo regionale una “cellula” della criminalità organizzata calabrese. Gi ex assessori comunali di Aosta e Saint-Pierre, Marco Sorbara e Monica Carcea, sono invece stati riconosciuti dai giudici colpevoli di concorso esterno nel sodalizio. Tutti hanno scelto il dibattimento ordinario, mentre altri quattro affiliati avevano riportato condanne nel rito abbreviato conclusosi il 17 luglio scorso dinanzi al Gup di Torino.
Stop alla violenza, sì alla politica
Per i magistrati, la “variante” mafiosa radicatasi sulle sponde della Dora “risponde pienamente ai metodi ed alle finalità della ‘ndrangheta radicata nel nord Italia”, ove “ha dismesso l’uso della violenza o dell’intimidazione diretta ed ha preferito operare attraverso un metodo meno evidente, ma non meno pervasivo ed efficace”. Per dirla senza mezze parole, se “da quel che è apparso” nel processo non è sortita “la voluta finalità di porre la società valdostana sotto il controllo della criminalità organizzata”, il risultato “di prostituire l’attività politica ad influenze esterne (politico-mafiose) è certamente stato per una notevole parte realizzato”.
“Gli imputati – si legge nella sentenza – appaiono in grado di fare e disfare a proprio piacimento i consensi” di un candidato ed è “chiaramente emerso come i componenti” dell’associazione abbiano “ripetutamente condizionato lo svolgimento di competizioni elettorali in Valle d’Aosta, tanto a livello locale quanto a livello regionale”. Attenzione, “non si tratta di una manifestazione di forza fine a sé stessa”, bensì tesa a collocare nelle istituzioni “persone di fiducia, che sarebbero state pronte in qualsiasi momento ad ascoltare ed a soddisfare gli interessi o le richieste della consorteria mafiosa che ha contribuito ad eleggerle” (a partire dall’affiliato Prettico, “sospinto” nel consiglio comunale di Aosta nel 2015).
Le regionali 2018: la “locale” diversifica
Una strategia che, se nel 2016 vede Antonio Raso e Marco Fabrizio Di Donato (ritenuti vertici della “locale”) convenire in netto anticipo sulle regionali “sull’opportunità di appoggiare Ego Perron, esponente politico di rilievo dell’Union Valdôtaine”, con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale del 2018 diventa “ben più complessa”, in quanto “il nuovo obiettivo era quello di sostenere i candidati dei maggiori partiti autonomisti”. La logica? Semplice, “avere un maggior numero possibile di consiglieri sui quali poter contare nell’assemblea elettiva regionale, qualche che fosse stato l’esito della competizione”.
Stando al collegio giudicante, i boss fanno “bingo”, perché “almeno quattro candidati” di quella tornata “(trattasi di Sorbara Marco, Bianchi Luca, Testolin Renzo e Viérin Laurent) hanno conseguito l’elezione a consigliere regionale con il contributo della ‘ndrangheta”. Non solo, le motivazioni ricordano come due di loro (Viérin e Testolin) abbiano, in tempi recenti, rivestito la carica politico-amministrativa più importante di piazza Deffeyes, quella di Presidente della Regione, che in virtù dello Statuto speciale incarna anche funzioni prefettizie.
Gli atti processuali alla Dda per tre politici
Un terzo Capo dell’Esecutivo, Pierluigi Marquis, “ha chiesto il sostegno” della criminalità calabrese “ma non lo ha ottenuto, a riprova della forza del sodalizio criminoso, apparso chiaramente in grado di scegliere quali candidati sostenere ed a quali candidati rifiutare il sostegno”. Valutazioni a seguito delle quali il Tribunale di Aosta ha trasmesso oggi, sabato 12 dicembre, gli atti processuali alla Dda di Torino, che ha coordinato l’inchiesta attraverso i pm Stefano Castellani e Valerio Longi, al fine di valutare la sussistenza del reato di concorso esterno nel sodalizio a carico di Testolin, Viérin e Bianchi.
Intimidazioni e “ambasciate”
Oltre all’ingerenza sulla politica, i giudici annotano come l’inchiesta abbia messo nero su bianco episodi “indicativi della manifestazione verso l’esterno della forza intimidatrice dell’associazione”, legati soprattutto al condizionamento di assegnazioni di lavori ad artigiani, o ai rapporti tra appartenenti alla comunità calabrese stabilitisi in Valle, nonché la “presenza di rapporti con la ‘ndrangheta radicata in Calabria ed in particolare nella provincia di Reggio Calabria”. Il Tribunale ritiene che in almeno sei occasioni, tra il 2015 e il 2016, la “locale” abbia avuto contatti con esponenti della criminalità organizzata dimoranti” nella terra di Polsi, per altrettante “ambasciate”.
Il “coordinatore” Nirta in missione
Altro “aspetto meritevole di approfondimento”, nell’identificazione dei tratti fondamentali della “cellula” criminale, è costituito dalla “capacità dei suoi promotori e dirigenti di mediare tra i conflitti interni insorti tra i singoli associati”. In tal senso vengono lette, nella sentenza, due visite tra i monti di Bruno Nirta (emerso nell’inchiesta quale “coordinatore” del sodalizio e condannato a Torino a 12 anni e 8 mesi di carcere, anche quale protagonista di un traffico di stupefacenti internazionale tra Spagna e Piemonte).
Le “dimenticanze” di Centoz
I giudici analizzano anche il tentativo di scambio elettorale politico-mafioso per cui Raso è stato condannato nei confronti del candidato sindaco di Aosta nel 2015 (poi eletto), Fulvio Centoz. Chiamato a testimoniare durante il processo, l’esponente del Pd ha asserito “di non ricordare di aver ricevuto delle richieste di assunzioni, in cambio della proposta di sostegno elettorale, ma di avere rifiutato l’offerta perché da lui ritenuta non utile o comunque non produttiva di un risultato elettorale determinante”. Al di là “ dei singolari deficit mnemonici del teste Centoz, – prosegue il collegio – è indubitabile che Raso abbia formulato una precisa proposta di sostegno elettorale” al futuro primo cittadino, incontrato ad un tavolo della pizzeria “La Rotonda”.
Carcea, finta “inconsapevole”
Quanto ai due condannati per concorso esterno, “le emergenze processuali dimostrano come” Monica Carcea, già titolare della delega alle finanze nel Municipio commissariato dopo l’inchiesta, “si sia di fatto posta come referente degli esponenti di vertice dell’associazione all’interno dell’amministrazione comunale di Saint-Pierre, tenendoli informati su questioni discusse all’interno della maggioranza e della Giunta comunale, pur se non formalizzate in atti ufficiali, e come la stessa associazione sia stata ‘alle spalle’ della Carcea, che ad essa si è rivolta per ottenere sostegno, tutela e credibilità politica”.
Duro il giudizio sulla condotta processuale dell’imputata, che “finge di non comprendere la valenza del materiale probatorio e comunque professa la propria ‘inconsapevolezza’ come fosse un dogma a cui credere con un atto di fede che però si sfalda inesorabilmente a fronte di una concatenazione di eventi, dialoghi e comportamenti che non consentono altra lettura logicamente e razionalmente sostenibile dei fatti per i quali è processo”.
Sorbara, la “locale” e il “pactum sceleris”
Quanto al già assessore alle Politiche sociali al comune di Aosta e consigliere regionale dal 2018 (poi sospeso sino al termine della scorsa legislatura, a seguito dell’arresto nel blitz dei Carabinieri del Reparto operativo il 23 gennaio 2019) Marco Sorbara, va “rimarcato l’elevato livello di interferenza” da lui consentito “nella gestione del proprio mandato”, avendo “accettato e richiesto vere e proprie intromissioni da parte di Raso laddove si sia trattato di gestire conflitti e tensioni, eseguendo le direttive dell’associato e permettendogli persino di intervenire personalmente nei rapporti con politici di San Giorgio Morgeto”.
“E’ evidente, pertanto, – scrivono ancora i giudici – come questa continua ricerca di approvazione non abbia costituito un fattore episodico e occasionale”, quanto “una manifestazione di uno stabile affidamento del politico sull’associazione, che trova il proprio fondamento logico solamente in un ‘pactum sceleris’ originario a garanzia di Sorbara, che, infatti regolarmente si è presentato da Raso, subendone anche le rimostranze se non in linea con i suoi consigli”. Il deposito delle motivazioni consentirà ai legali degli imputati di predisporre i ricorsi in Appello, tappa già annunciata praticamente da tutti sin da pochi minuti dopo la sentenza.