‘ndrangheta, i perché delle assoluzioni di Di Donato e della condanna di Filice

Nelle motivazioni alla sentenza dello scorso 3 aprile, del giudizio “bis” sul rito abbreviato del processo “Geenna”, la Corte d’appello di Torino spiega l’assenza di prove a carico di Donato e perché Filice va ritenuto responsabile di tentata estorsione.
Cronaca

In 37 pagine, i giudici della seconda Sezione penale della Corte d’Appello di Torino spiegano le decisioni adottate lo scorso 3 aprile nel giudizio “bis” sul rito abbreviato del processo “Geenna”, su infiltrazioni di ‘ndrangheta in Valle d’Aosta. Questo “ramo” del procedimento ha riguardato due imputati, Marco Fabrizio Di Donato e Salvatore Filice, ed era conseguente alla decisione assunta dalla Corte di Cassazione, circa un anno fa, aveva annullato tre capi d’imputazione (e relative sentenze) a loro carico, disponendo il rinvio per una nuova valutazione dei fatti.

Lavori alla “Grotta azzurra”: nessuna estorsione

Per Di Donato, al quale la Cassazione aveva definitivamente confermato l’accusa di associazione di stampo mafioso (era emerso dalle indagini dei Carabinieri e della Dda di Torino come una figura rilevante della “locale” di ‘ndrangheta attiva ad Aosta), occorreva decidere sull’accusa di estorsione, relativa al periodo gennaio febbraio 2016, ai danni del titolare del ristorante “Grotta Azzurra” di Aosta, per alcuni lavori nel locale.

Secondo la Corte d’Appello, la frase intercettata “come finisci il locale te lo ‘svampo’”, che Di Donato riferisce ad una terza persona di aver rivolto al titolare del locale, “non è riferita all’affidamento dei lavori di ristrutturazione del ristorante allo studio di architettura” prescelto per i lavori “e agli artigiani da quest’ultimo scelti”, ma esclusivamente ad un artigiano “inviso a Di Donato per essersi rifiutato di votare per Prettico Nicola alle elezioni” del 2015 per il Comune di Aosta.

Peraltro, sottolineano i giudici, richiamando la sentenza di annullamento da parte della Suprema Corte, si era trattato di una conversazione tra l’imputato ed un’altra persona “e non vi è alcuna certezza che Di Donato l’avesse effettivamente rivolta” al titolare del ristorante. Anche perché, annota ancora la Corte d’Appello, quest’ultimo, sentito a sommarie informazioni “ha recisamente negato la circostanza”.

Inoltre, alla luce del “tono autocelebrativo della conversazione”, non “può escludersi che il riferimento all’incendio del locale” fosse “una mera millanteria” e, nell’insieme, “il compendio probatorio non assevera affatto la conclusione che” il titolare “fosse stato costretto ad affidare i lavori” per “effetto di condotta intimidatoria posta in essere da Di Donato. Da qui, la decisione di assolverlo dall’imputazione di estorsione.

Voto di scambio a Saint-Pierre: mancano le prove

L’altra accusa pendente sul capo dell’imputato, assistito dall’avvocato Demetrio La Cava, era il voto di scambio politico-mafioso, in occasione delle elezioni comunali del 2015 a Saint-Pierre, in cui per gli inquirenti la “locale” aostana avrebbe sostenuto Monica Carcea, imputata per concorso esterno nel processo con rito ordinario, di cui è in corso l’appello “bis”.

Al riguardo, la Corte d’Appello di Torino ritiene che “non sussista la prova di un accordo intervenuto tra Di Donato” e l’ex assessora “in epoca antecedente alle consultazioni elettorali” per “il procacciamento di voti a favore della candidata con modalità mafiose”. Risulta infatti – si legge in sentenza – un’“unica conversazione intercettata in epoca precedente lo svolgimento delle consultazioni elettorali avente ad oggetto i propositi di voto”.

Per il Collegio, oltretutto, “desumere dal suo (vago) contenuto la sussistenza di un accordo per l’appoggio elettorale alla Carcea” configura “una vera e propria forzatura del dato probatorio”. Peraltro, “il fatto stesso che sino al mese di aprile del 2015” Di Donato e Antonio Raso (altro imputato per la partecipazione nella “locale” aostana) “non sapessero nemmeno in quale lista la Carcea fosse candidata risulta logicamente assai poco compatibile con lo svolgimento di una campagna elettorale in suo favore in vista delle elezioni che si sarebbero tenute un mese dopo”. Anche in questo caso, quindi, la Corte ha pronunciato sentenza di assoluzione. Alla luce delle due assoluzioni, i giudici hanno rideterminato la pena complessiva per Marco Fabrizio Di Donato in 6 anni di carcere.

Filice: pacifici i fatti

Confermata, invece, la condanna a carico dell’altro imputato, Salvatore Filice, a 2 anni e 4 mesi di reclusione per tentata estorsione e violazione delle norme sulle armi. La vicenda per cui era a giudizio originava dalla “scazzottata” tra suo figlio e il nipote del ristoratore Raso. Secondo le indagini, l’imputato avrebbe chiesto al giovane coinvolto e al suo patrigno di “risarcirlo” con 10mila euro, minacciandoli con una pistola.

Il ricorso presentato dai difensori Gianfranco Sapia ed Elena Corgnier, accolto dalla Cassazione, puntava sulla qualificazione giuridica del fatto, ma per la Corte d’Appello “è pacifica la scazzottata” ed “è altrettanto pacifico che, a seguito di questo fatto” Filice “aveva avanzato una richiesta di scuse e di indennizzo patrimoniale agli zii” dell’altro ragazzo coinvolto.

Per i giudici va poi valutato l’atteggiamento dell’imputato, che “trovatosi a confronto con esponenti ella ‘ndrangheta, non aveva avuto esitazioni a minacciarli con una pistola e a contrapporre alla loro caratura criminale suoi propri qualificati legami con omologhe organizzazioni criminali operanti in Calabria e in Puglia”. La difesa dell’imputato potrà ora, sulla base delle motivazioni, predisporre l’eventuale nuovo ricorso in Cassazione.

‘ndrangheta, scende a 6 anni la condanna per Marco Fabrizio Di Donato

3 aprile 2024

Blitz anti ‘ndrangheta dei Carabinieri

Con la sentenza, letta nel pomeriggio di mercoledì 3 aprile va in archivio anche l’appello “bis” sul rito abbreviato di “Geenna”, il processo su infiltrazioni di ‘ndrangheta in Valle. Marco Fabrizio Di Donato, condannato definitivamente per associazione di tipo mafioso, è stato assolto dalle accuse di tentata estorsione e scambio elettorale politico mafioso: la sua pena complessiva è stata rideterminata in 6 anni di reclusione. Confermata, invece, la condanna per l’altro imputato, Salvatore Filice, cioè 2 anni e 4 mesi di carcere per tentata estorsione e per la violazione delle norme sulle armi.

Al giudizio “bis”, tenutosi dinanzi alla seconda sezione penale della Corte d’Appello di Torino (dove si era aperto lo scorso 8 febbraio), si era arrivati perché la Corte di Cassazione, accogliendo i ricorsi difensivi del due imputati, aveva annullato tre capi d’imputazione (e relative sentenze) a loro carico, disponendo il nuovo procedimento.

Alla discussione tra le parti, il sostituto procuratore generale Marcello Tatangelo aveva chiesto 6 anni e 8 mesi di reclusione per Di Donato (invocando l’assoluzione dall’addebito di voto di scambio-politico mafioso e derubricando a tentativo l’estorsione), nonché la conferma della sentenza di appello poi annullata dalla Suprema Corte per Filice.

Le motivazioni della sentenza sono attese entro 15 giorni. Di Donato, ritenuto nella sentenza passata in giudicato una figura rilevante della “locale” di ‘ndrangheta attiva ad Aosta (su cui avevano indagato i Carabinieri e la Dda di Torino), era assistito dall’avvocato Demetrio La Cava. I legali di Filice, Gianfranco Sapia ed Elena Corgnier, restando in attesa delle motivazioni, annunciano sin d’ora la volontà di impugnare nuovamente in Cassazione la decisione odierna dei giudici.

Processo Geenna “bis”, il 3 aprile la sentenza per Di Donato e Filice

15 marzo 2024

Un’udienza dell’appello Geenna a Torino.

E’ attesa per il 3 aprile la sentenza del processo d’appello “bis” sul rito abbreviato di “Geenna” (su infiltrazioni di ‘ndrangheta in Valle), che riguarda due imputati. Nel pomeriggio di ieri, giovedì 14 marzo, dopo che lo scorso 8 febbraio il sostituto procuratore generale Marcello Tatangelo aveva avanzato le sue richieste di pena, è stata la volta delle arringhe difensive dei difensori di Marco Fabrizio Di Donato (avvocato Demetrio La Cava) e Salvatore Filice (avvocati Gianfranco Sapia ed Elena Corgnier).

Il giudizio riguarda tre capi d’imputazione per cui la Corte di Cassazione, accogliendo i rispettivi ricorsi difensivi, aveva annullato le sentenze a loro carico, disponendo il nuovo procedimento. Chiusa la discussione, la seconda sezione penale della Corte d’Appello di Torino ha quindi rinviato l’udienza ad inizio aprile per eventuali repliche delle parti e la sentenza.

‘ndrangheta, per Marco Di Donato l’accusa chiede pena di 6 anni e 8 mesi

8 febbraio 2024

Il giudizio “bis” si è aperto giovedì 8 febbraio, a Torino, con la requisitoria dell’accusa. Il sostituto procuratore generale, Marcello Tatangelo, ha chiesto alla seconda sezione penale della Corte d’Appello una rideterminazione della pena per Di Donato, dai 9 anni e 6 mesi di carcere precedentemente inflittigli, a 6 anni e 8 mesi. L’imputato, di cui la Suprema Corte aveva delineato il profilo di figura rilevante nella “locale” di ‘ndrangheta di Aosta, è difeso dall’avvocato Demetrio La Cava.

L’accusa giunge alla rideterminazione della pena avendo invocato l’assoluzione dell’imputato dall’addebito di voto di scambio politico-mafioso (relativamente alle elezioni comunali del 2015, ove per la Dda di Torino e i Carabinieri la “locale” aostana avrebbe “sostenuto” Monica Carcea, imputata per concorso esterno nel ramo processuale con rito ordinario, giunto all’appello “bis”) e con la derubricazione a tentativo dell’accusa di estorsione (che, nell’ipotesi inquirente, sarebbe relativa al periodo gennaio-febbraio 2016, ai danni del titolare del ristorante “Grotta Azzurra” di Aosta, per alcuni lavori nel locale).

I motivi dell’annullamento

Per la Cassazione, le condanne di Di Donato andavano annullate perché, relativamente all’ipotesi estorsiva, non era stata tenuta in considerazione la “rilevantissima circostanza che le maestranze” incaricate “dei lavori sono esattamente le stesse cui il committente aveva ipotizzato di rivolgersi, come pure assai equivoca era l’indicazione dello studio” da individuare “quale progettista”.

Sullo scambio elettorale politico mafioso, invece, “non è chiarito in sentenza in quale misura ed in che modo l’afflato ipotizzato tra consigliere comunale eletta e locale indiziato di partecipazione mafiosa consenta di ritenere che – ante elezioni – si fosse realizzato lo scambio di promesse illecite sanzionato dalla norma incriminatrice, cosa questo accordo prevedesse e attraverso quali modalità mafiose (note o concretamente ipotizzabili dalla candidata) si sarebbe realizzato l’aiuto elettorale”. Il comune di Saint-Pierre era stato sciolto a seguito dell’accesso antimafia seguito all’inchiesta.

La “scazzottata” tra giovani

Per Salvatore Filice, imputato di estorsione aggravata tentata, la pubblica accusa ha chiesto la conferma della sentenza di appello poi annullata dalla Cassazione (vale a dire 2 anni e 4 mesi di reclusione, comprensivi della condanna per violazione delle norme sulle armi non oggetto di “cancellazione” da parte della Suprema corte). L’episodio al centro della contestazione è quello della “scazzottata” tra il figlio dell’imputato e il nipote del ristoratore Antonio Raso (anch’egli a giudizio in “Geenna”, per la sua presunta partecipazione alla “locale”, nel dibattimento ordinario).

Nell’impostazione accusatoria, l’imputato avrebbe chiesto al giovane coinvolto e al suo patrigno di “risarcirlo” con 10mila euro. Il ricorso presentato dai difensori Gianfranco Sapia ed Elena Corgnier, accolto dalla Cassazione, puntava sulla qualificazione giuridica del fatto. Per la Suprema Corte il giudizio “bis” deve verificare se “Salvatore Filice agì nella convinzione di esercitare il diritto proprio (quale esercente la potestà genitoriale sul figlio minore) ad ottenere il risarcimento del danno morale e materiale ad opera” dell’altro ragazzo. La requisitoria del sostituo pg Tatangelo è durata circa due ore. L’udienza è quindi stata rinviata a marzo, per il prosieguo della discussione, con le parti civili e le difese.

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