Processo “Geenna” a Torino: la “locale” di Aosta era ‘ndrangheta a tutti gli effetti

Depositate le motivazioni della sentenza con cui, nel processo con rito abbreviato nato dall'indagine “Geenna” della Dda di Torino e dei Carabinieri, sono stati condannati Bruno Nirta, Marco Fabrizio Di Donato, Roberto Alex Di Donato e Francesco Mammoliti.
Operazione GEENNA - Udienza preliminare
Cronaca

Le risultanze delle investigazioni svolte dai Carabinieri del Reparto investigativo del Gruppo Aosta, dal 2014 e per i successivi quattro anni, consentono “di ritenere provata l’esistenza dei presupposti” previsti dal codice penale “in relazione all’associazione denominata ‘locale’ di Aosta”. E’ la conclusione del Gup del Tribunale di Torino, Alessandra Danieli, nelle 849 pagine delle motivazioni alla sentenza con cui, lo scorso 17 luglio, ha condannato i quattro organizzatori e “partecipi” della cellula di ‘ndrangheta del capoluogo regionale su cui ha ruotato l’inchiesta “Geenna” della Dda di Torino.

Parliamo del ramo processuale in cui sono comparsi gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato (l’altro, con dibattimento ordinario, è stato celebrato in Valle). In quell’occasione a Bruno Nirta (62 anni, di San Luca, in provincia di Reggio Calabria, ritenuto il “coordinatore” del sodalizio) erano stati inflitti 12 anni e 8 mesi di carcere, 9 al presunto capo Marco Fabrizio Di Donato (51, Aosta), 5 anni e 4 mesi al fratello Roberto Alex Di Donato (43, Aosta, individuato dall’inchiesta quale altra figura di vertice) e 5 anni e 4 mesi a Francesco Mammoliti (49, Saint-Vincent, emerso dalle investigazioni quale “fiancheggiatore” di Nirta quando era presente in Valle).

Dal fascicolo processuale, il giudice desume come effettivamente riscontrabili, nel caso della “locale” aostana, “l‘utilizzo del metodo intimidatorio, il controllo del territorio, la condizione di assoggettamento esterno, l’assistenza ad altri associati in stato di restrizione, la partecipazione – seppur rimasta incompiuta – a riti di affiliazione, l’infiltrazione nel mondo politico, con condotte integranti pure” autonomi profili di scambio elettorale politico-mafioso, nonché “i collegamenti con il ‘locale’ di riferimento in Calabria per risolvere alcune problematiche interne o esterne al sodalizio”.

Dinamiche che documentano “l”affectio societatis’ (letteralmente, la volontà di essere soci, ndr.) tra i sodali e l’esistenza all’interno del gruppo di specifiche gerarchie (risalenti sino alle cosche calabresi di appartenenza) proprie delle compagini mafiose”. Valutazioni che il Gup Danieli esprime alla luce del “coinvolgimento degli imputati, oltre che in singoli episodi integranti reato, in plurime vicende, le quali”, pur non superando di per sé la soglia della rilevanza penale, “dimostrano il pieno inserimento degli stessi nel contesto associativo” al centro dell’inchiesta esplosa in pubblico il 23 gennaio 2019, con i sedici arresti eseguiti nella notte dall’Arma.

Vicende, quelle prese in considerazione dal giudice, che mostrano – si legge ancora nella sentenza – “il concreto esercizio del metodo intimidatorio in quanto comunque finalizzate ad ottenere il controllo del territorio ovvero a rafforzare il potere dell’associazione mafiosa, nonché ulteriori circostanze ampiamente descrittive di dinamiche e relazioni proprie di un contesto mafioso di matrice ‘ndranghetista”. Un preambolo al quale il Gup fa seguire l’elencazione di alcuni elementi caratterizzanti dell’associazione a delinquere per cui gli imputati sono stati condannati.

Anzitutto, “l’unitarietà del gruppo nell’affrontare le problematiche che di volta in volta si presentano” ed il “vincolo solidaristico che lega gli associati, i quali, in molteplici occasioni, hanno manifestato di essere mossi dal senso di appartenenza al ‘gruppo’ o alla ‘famiglia’”. In quelle circostanze, “a fronte di singole questioni emerse nel corso della vita associativa” gli appartenenti alla “locale” hanno “di volta in volta sottoposto le stesse al confronto e all’approvazione dei sodali, organizzando ripetutamente confronti e incontri di persona fra loro – stante le accortezze prestate nel parlare al telefono – prima di assumere decisioni”.

In molteplici occasioni, inoltre, gli imputati “si sono presentati, ovvero sono stati percepiti all’esterno come un gruppo unitario e compatto”. Altamente significativa al riguardo viene considerata, dal Gup Danieli, la vicenda della richiesta di denaro avanzata dal 53enne Salvatore Filice (cui sono stati inflitti, sempre nel processo torinese, a 2 anni e 4 mesi di carcere) a seguito di una “scazzottata” tra suo figlio e il nipote del ristoratore Antonio Raso, giudicato (e condannato) con il dibattimento ordinario ad Aosta.

Una insieme di elementi che fanno ritenere al magistrato “acquisita la prova del carattere mafioso dell’associazione”. L’accusa era stata rappresentata, nel procedimento torinese, dai pm Stefano Castellani e Valerio Longi, con il procuratore capo Anna Maria Loreto ad avanzare le richieste di pena finali. Oltre agli imputati per associazione di stampo mafioso, nel processo torinese erano alla sbarra i coinvolti in un traffico internazionale di stupefacenti tra Spagna e Piemonte, su cui avevano lavorato i Carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale.

Al Tribunale di Aosta, per l’altra “metà” della cellula di ‘ndrangheta (rappresentata da Antonio Raso e dai dipendenti del Casinò Nicola Prettico e Alessandro Giachino) e per il concorso esterno nell’associazione da parte di due ex amministratori comunali (il consigliere regionale sospeso Marco Sorbara, già alle politiche sociali ad Aosta, e Monica Carcea, titolare della delega alle finanze a Saint-Pierre, municipio sciolto a seguito dell’accesso antimafia seguito all’inchiesta) erano state inflitte, lo scorso 16 settembre, condanne per 55 anni in tutto. Le motivazioni di questa seconda sentenza sull’infiltrazione mafiosa in Valle debbono ancora essere depositate.

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