‘Ndrangheta, la difesa Nirta: droga? Macché, si parlava di camoscio, di cervo…

A palazzo di giustizia di Torino, con le due udienze di questa settimana, si sono esaurite le arringhe degli avvocati dei presunti componenti della “locale” aostana a processo con il rito abbreviato. La sentenza si avvicina.
Operazione GEENNA - Udienza preliminare
Cronaca

Lo ha definito il “memoriale”. In realtà, non troppe righe, in cui ha parlato di sé stesso in terza persona, come alcuni assi del calcio o rockstar. Bruno Nirta, ritenuto dalla Dda di Torino il vertice della “locale” di ‘ndrangheta di Aosta (assieme a suo cugino, Marco Fabrizio Di Donato), ha offerto al processo in corso nel capoluogo piemontese la sua versione sul “passaggio in Valle”, che i Carabinieri del Reparto operativo hanno documentato negli atti dell’inchiesta Geenna.

Era il 13 dicembre 2015 e il principale imputato del procedimento (i pm Valerio Longi e Stefano Castellani hanno chiesto per lui la pena più alta, 20 anni di reclusione), intervenendo in videoconferenza dal carcere di Teramo, dov’è rinchiuso dal suo arresto, ha sostenuto essersi trattato di “saluti natalizi ad un cugino”. Ha contestualmente negato di aver ricevuto appoggi logistici da un altro presunto partecipe, anch’egli a giudizio, Francesco Mammoliti.

In realtà, per la Dda, sulla base delle dichiarazioni del “pentito” Daniel Panarinfo, quel “viaggio” tra le montagne di nord-ovest era finalizzato ad un’importante cessione di droga: un “carico” da quattro chili. Per il suo difensore, l’avvocato Luigi Tartaglino, è “un’assurdità in termini”, perché “se sono capo della ‘locale’ di Aosta, come faccio ad offrire a me stesso?”. E ancora: “se offro a Di Donato, vuol dire che non sono socio dell’associazione”. Il legale ha quindi puntato sull’assenza di riscontri nelle intercettazioni ambientali: si parla di carne di camoscio, di cervo, ha ripetuto nell’arringa, di prelibatezze valdostane.

Oltretutto, riferendosi al pranzo “monitorato” dagli investigatori al ristorante “La Rotonda” di Tonino Raso (anch’egli arrestato e a processo con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), l’avvocato ha sottolineato come Nirta e gli altri commensali avrebbero aspettato un’ora e mezza per avere un tavolo, perché il locale era pieno. Fatto non proprio abituale, per un boss, nella pizzeria di un presunto sodale, ha chiosato il difensore.

Nell’udienza di ieri, giovedì 5 marzo, al palazzo di giustizia torinese hanno arringato anche gli avvocati Anna Chiusano, che con il collega Wilmer Perga difende Roberto Alex Di Donato – fratello di Marco Fabrizio e ritenuto colui che, tra l’altro, teneva i rapporti della locale con la politica valdostana (l’accusa ha chiesto 10 anni) – e Rocco Femia, che assiste Francesco Mammoliti (10 anni e 8 mesi sono la richiesta per lui). Entrambi hanno insistito sull’inesistenza della “locale”, lettura che a loro dire sarebbe suffragata dalle stesse prove raccolte dagli inquirenti, carenti in particolare del metodo intimidatorio.

A scagionare il fratello era stato, con alcune dichiarazioni spontanee durate circa mezz’ora nell’udienza difensiva del giorno prima, mercoledì 4, lo stesso Marco Fabrizio Di Donato (14 anni di carcere chiesti dai pm), affermando di non vederlo da almeno dieci anni e che i loro figli nemmeno si conoscono. Tornando a parlare al giudice dopo una precedente udienza, il presunto “capoclan” si è posto frontalmente rispetto alla Dda, vedendo nella “locale” aostana un teorema dettato dall’accecante desiderio inquirente di mettere sulla Valle la bandiera della mafia.

Sollevando l’assenza di riscontri economici nel materiale probatorio, Di Donato ha scelto addirittura il registro dello sbeffeggio: “sarebbe l’unica associazione di tipo mafioso senza scopo di lucro”. Quasi un onlus, suvvia. Per lui, è insostenibile l’equazione “calabrese = ‘ndranghetista” e la verità – in riferimento all’accusa mossagli di scambio elettorale politico-mafioso – è che “in Valle tutti chiedono i voti a tutti” e tutti “dicono sì” (in questo frangente, ha attaccato anche il sindaco di Aosta, Fulvio Centoz, costituitosi parte civile). Riferendosi ai suoi trascorsi, ha ammesso dei precedenti penali, ma “mica la lebbra”.

Il processo torinese, in corso dinanzi al Gup Alessandra Danieli, riguarda gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato. Con le due udienze di questa settimana si sono concluse le discussioni delle difese di coloro chiamati a rispondere di essere componenti della “locale” di Aosta. Il prossimo appuntamento, per il 19 marzo (legato agli imputati del filone torinese dell’inchiesta, su un traffico internazionale di stupefacenti), potrebbe però slittare per l’astensione proclamata dagli avvocati la prossima settimana, relativamente all’allarme Coronavirus.

Il giudice dovrebbe comunque calendarizzare ancora un’udienza per le eventuali repliche dell’accusa. Per una sentenza che comunque si avvicina, è stato confermato in queste ore l’avvio per l’11 marzo del procedimento di Aosta, in cui sono chiamati a comparire cinque imputati che non hanno scelto riti alternativi. Tre (Raso, Alessandro Giachino e il consigliere comunale sospeso Nicola Prettico) sono accusati di essere stati componenti del sodalizio, mentre altri due (l’ex assessore di Saint-Pierre Monica Carcea e il consigliere regionale sospeso Marco Sorbara) di avervi concorso esternamente.

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