‘Ndrangheta, nella sentenza d’Appello “relazioni e connivenze” della “locale” di Aosta

Depositate le motivazioni al verdetto di secondo grado con rito abbreviato, quello in cui – lo scorso 19 luglio a Torino – erano state confermate le condanne per le figure ritenute ai vertici del sodalizio aostano.
Un'udienza dell'appello Geenna a Torino.
Cronaca

La “locale” di ‘ndrangheta di Aosta non solo, per i giudici della prima sezione penale della Corte d’Appello di Torino, è esistita, ma “attraverso una rete di rapporti improntati ad una costante azione, espressione di pressione e intimidazione” – per quanto esercitati “senza il ricorso ad atti marcatamente violenti” – è anche riuscita “di fatto a costruire una rete di relazioni, connivenze, rapporti con istituzioni e con esponenti con ruoli di interesse in settori importanti delle attività economiche e politiche”, funzionali “alla creazione di quel tessuto connettivo necessario per realizzare gli scopi e le finalità di un’associazione di tipo mafioso”.

Lo si legge nelle 844 pagine, depositate a fine dicembre, delle motivazioni alla sentenza con cui, anche al termine del secondo grado di giudizio con rito abbreviato, lo scorso 19 luglio erano stati condannati – per aver promosso e gestito la cellula ‘ndranghetista in terra valdostana – Bruno Nirta (62 anni di San Luca), Marco Fabrizio Di Donato (51), suo fratello Roberto Alex Di Donato (43) e Francesco Mammoliti (49). Le indagini, coordinate dalla Dda di Torino e condotte dai Carabinieri del Reparto Operativo di Aosta, erano iniziate nel 2014 e culminate, nel gennaio di cinque anni dopo, nell’operazione “Geenna”, con l’esecuzione di sedici arresti.

Nirta l’intermediario, Di Donato il capo

Per i giudici, “dalle emergenze processuali è da subito emerso il ruolo assunto” da Nirta “di intermediario tra gli affiliati ‘ndranghetisti presenti nella Regione e le cosche calabresi”, mentre al vertice della “locale” aostana la sentenza pone Marco Fabrizio Di Donato, coadiuvato dal fratello Roberto Alex. L’inchiesta fa registrare alla Corte d’Appello, rispetto a quanto emerso da attività investigative del passato, il “mutamento dei rapporti e dei collegamenti con la ‘casa madre’ calabrese”. Il baricentro della “cellula” insediata in Valle – si legge in sentenza – “risulta spostato dalla ‘ndrangheta tirrenica a quella ionica e, in particolare alla ‘locale’ di San Luca’”.

Ingerenze in più campi

Dall’esame del materiale probatorio, i magistrati d’appello bocciano i ricorsi degli imputati sulle condanne di primo grado (inflitte dal Gup di Torino il 17 luglio 2020) e concludono che in Valle d’Aosta, negli anni delle indagini “molteplici settori risultano concretamente condizionati da attività e strategie riferibili all’associazione”, segnatamente i campi “dell’edilizia privata e del commercio ambulante di generi alimentari, quello delle concessioni e degli appalti pubblici con l’ingerenza nella vita politica del territorio volta ad ottenere vantaggi in termini di commesse lavorative da enti pubblici”.

A tali ambiti – prosegue la sentenza – “si aggiunge l’intervento del sodalizio nel settore politico, proponendosi come organismo convogliatore di voti da indirizzare a plurimi candidati in campagne elettorali amministrative e regionali in cambio di utilità”. Queste, agli occhi della Corte, erano date dal “conseguimento di posti di lavoro, dal conseguimento di concessioni ed appalti e di altri favori facilitazioni nella soluzione di pratiche amministrative”, o comunque dalla “pervasiva presenza di membri dell’associazione medesima all’interno delle amministrazioni comunali mediante propri rappresentanti o soggetti ad essa contigui”.

Il “gruppo unitario”

La “locale” di Aosta, per i giudici torinesi, era tale non solo perché in molteplici occasioni “gli imputati si sono presentati o sono stati percepiti all’esterno come appartenenti ad un gruppo unitario”, in grado di “esprimere una consolidata forza intimidatrice”, per “forza propria e per i collegamenti con soggetti notoriamente appartenenti alle ‘cosche’ calabresi”, ma pure per la sussistenza di “una organizzazione gerarchica della struttura organizzativa con diversificazione di compiti e funzioni tra gli associati e distinzione tra ruoli apicali e ruoli partecipativi”.

In quest’ottica, nella lettura della Corte d’Appello, le investigazioni hanno dimostrato “il rispetto dei riti e delle pratiche di affiliazione, l’utilizzo di termini propri di un linguaggio codificato noto ai soli associati, l’assistenza economica ad altri associati in stato di restrizione, l’attivazione per sottrarsi ad eventuali investigazioni dell’autorità giudiziaria, la corresponsione di utilità economiche a familiari di riferimento in Calabria, oltre alla ricorrenza di presupposti strutturali funzionali alla operatività dell’associazione”. Tra questi, “l’impiego di utenze dedicate da alcuni degli imputati” e “la disponibilità di luoghi in cui effettuare incontri e riunioni e assumere decisioni”. Su tutte, l’abitazione di Marco Fabrizio Di Donato, “in cui gli associati si incontrano riservatamente”.

Il “fil rouge” Aosta-Calabria

Peraltro, è scritto nelle motivazioni, la “pratica della trasmissione da parte degli imputati di ‘ambasciate’ in Calabria è dimostrativa della loro appartenenza ad una articolazione delocalizzata della ‘ndrangheta”, giacché gli affiliati aostani “provvedono a comunicare gli elementi nuovi emersi in relazione alle dinamiche associative, sottopongono i problemi dovuti alle tensioni con altri soggetti”, nonché “sollecitano giudizi su eventuali comportamenti scorretti posti in essere da alcuni dei sodali”. Tutto ciò, dimostrando sempre “integrale coesione dettata dal senso di appartenenza al ‘gruppo’ o alla ‘famiglia’”.

L’altro ramo processuale

Parallelamente al filone processuale in rito abbreviato, il procedimento penale nato dall’operazione “Geenna” ha visto anche un dibattimento ordinario, nel quale, a conclusione dell’appello, sono stati condannati per associazione di tipo mafioso il ristoratore Antonio Raso e i dipendenti del Casinò Nicola Prettico e Alessandro Giachino, mentre per l’ipotesi di concorso esterno i giudici hanno confermato la condanna dell’ex assessore a Saint-Pierre Monica Carcea, pronunciandosi invece per l’assoluzione dell’ex consigliere regionale Marco Sorbara (cui, in primo grado, erano stati inflitti 10 anni di carcere). Questo giudizio, per le impugnazioni delle parti, è destinato ad arrivare alla Corte di Cassazione. Lo stesso, ora disponibili le motivazioni, potrà ora avvenire per quello con rito abbreviato.

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