L’infiltrazione di ‘ndrangheta? I giudici: la “locale” puntava sulla politica

Nelle motivazioni della sentenza d'appello del processo Geenna, i magistrati di Torino ripercorrono i ruoli dei condannati Antonio Raso, Nicola prettico ed Alessandro Giachino, nonché della concorrente esterna Monica Carcea.
Antonio Raso durante l'esame in aula.
Cronaca

Il “corposo materiale probatorio acquisito” nell’indagine Geenna dai Carabinieri del Gruppo Aosta e dalla Dda di Torino “offre convincenti riscontri” circa l’“esistenza di una ‘locale’ valdostana” di ‘ndrangheta, con “conseguente infondatezza dei relativi principali motivi” di appello degli imputati. E’ l’assunto, contenuto nelle motivazioni alla sentenza dello scorso 19 luglio depositate in questi giorni, da cui partono i giudici della Corte d’Appello di Torino per confermare la colpevolezza, per associazione di tipo mafioso, di Antonio Raso (10 anni di carcere), Nicola Prettico ed Alessandro Giachino (8 anni ognuno).

Le elezioni, rotta per meglio radicarsi

Per i giudici, il sodalizio criminale aostano inizialmente rivolge “le sue ‘attenzioni’ alle attività economiche private, chiaramente gestite da soggetti calabresi, di origine calabrese o ad essi vicini”. Poi, “progetta di espandersi nello stesso ramo grazie al ‘richiamo’ di altri soggetti ovviamente proni alla medesima logica” e sonda “le modalità di un possibile maggiore radicamento nel tessuto sociale attraverso le vie” dell’“dell’associazionismo massonico e dell’inserimento negli organi elettivi regionali”.

“E che la seconda via sia quella prescelta” – scrivono i giudici – si evince “non tanto e non solo dagli sviluppi delle indagini, che seguono il progressivo radicarsi del sodalizio nell’agone politico, ma dallo stesso, inequivoco, atteggiamento di Marco Fabrizio Di Donato (condannato nell’altro procedimento d’appello a 9 anni di reclusione quale capo della ‘locale’, ndr.), autentico ‘barometro’ delle scelte in questione”. Il tutto senza “ovviamente, trascurare gli altri settori di attività”, a partire “da quello, riservato ai vertici, del traffico di droga”.

Raso, affiliato ma non promotore

Quanto alle singole posizioni, la sentenza dei magistrati torinesi (presidente Mario Amato e consiglieri Roberto Cappitelli e Ilaria Guariello) individua come comprovata l’appartenenza alla locale del ristoratore Antonio Raso, “il cui attivismo, sia nel campo delle interferenze nella libera attività negoziale dei consociati”, che “nel campo politico, costituisce” preziosa “linfa per un gruppo di recente costituzione e che, al momento dell’arresto degli imputati (il 23 gennaio 2019, ndr.) progetta” un “crescente inserimento nelle istituzioni politiche locali”.

Raso, però, oltre all’assoluzione da alcuni “reati fine” di scambio politico-elettorale, non può essere considerato, come avvenuto da parte dei giudici di primo grado, promotore della “locale”, perché “si pone costantemente in posizione di subordinazione alle iniziative e soprattutto alle richieste ed alle direttive, sia di carattere operativo che organizzativo, che puntualmente gli vengono impartite da Marco Fabrizio Di Donato”. E’ a costui, del resto, che “si rivolge quando si tratta di risolvere faccende delicate che lo coinvolgono direttamente” o indirettamente.

Prettico, trait d’union con le istituzioni

Nicola Prettico

L’analisi delle intercettazioni condotte nell’inchiesta (iniziata nel 2014) consente poi di individuare una “continuativa opera dei rappresentanti del sodalizio in favore di Nicola Prettico” alle elezioni del 2015, in cui venne eletto consigliere comunale per l’Union Valdôtaine. Il dipendente del Casinò è certamente, agli occhi dei magistrati d’appello, “il primo trait d’union del gruppo con gli organi politici elettivi locali”, essendo “collegato intimamente al ‘cuore’ direttivo dello stesso, e non soltanto per la sua risalente conoscenza e frequentazione con Marco Fabrizio Di Donato”.

Giachino, sempre pronto a collaborare

Alessandro Giachino, per parte sua, “ogni qualvolta viene chiamato in causa” da altri appartenenti alla “locale” mostra di prestare una “pronta e costante collaborazione”. La sentenza ricorda tra l’altro che “accetta di accompagnare a Torino l’ex compagno di cella (per questo ‘fratello’) del suo massimo referente locale pur facendo presente (chissà perché, se doveva trattarsi solo di un passaggio) che per strada era ‘pieno di sbirri’” ed era presente alla “visita pastorale” in Valle di Bruno Nirta (altro condannato nel rito abbreviato d’appello, a 12 anni e 7 mesi di carcere, per aver coordinato l’associazione criminale valdostana)”, monitorata dai Carabinieri nel 2014.

Processo Geenna – l’arrivo di Giachino

Inoltre, Giachino – ripercorre la sentenza – “istruisce dettagliatamente la consorte su come comportarsi nel santuario (anche) del crimine calabrese di Polsi, rivendicando la forte amicizia con ‘Bruno’, del quale, al contempo, prudentemente evita di declinare il cognome al telefono”. Episodio, quest’ultimo, dimostrativo per i giudicanti “della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato associativo, sotto il profilo della consapevolezza della natura dello stesso e della generalizzata intimidazione prodotta negli occasionali interlocutori”.

Carcea, a disposizione di Di Donato

Passando agli imputati di concorso esterno, sviscerate le ragioni che hanno condotto all’assoluzione dell’ex consigliere regionale Marco Sorbara (rovesciando il verdetto di colpevolezza del primo grado), la Corte d’Appello passa a Monica Carcea, già assessore alle finanze del Comune di Saint-Pierre (ancora commissariato, dopo l’accesso antimafia scattato a seguito dell’inchiesta), cui sono stati inflitti 7 anni di carcere. Le motivazioni fotografano il “progressivo mettersi a disposizione” dell’imputata “prima del Di Donato e poi del gruppo da questi capitanato”.

Per i giudici, ciò avviene non solo attraverso due episodi legati all’attività amministrativa dell’ente riguardanti la moglie del boss, ma anche rivelando “perfino notizie riservate apprese in Comune in relazione alla vicenda dei trasporti taxibus gestiti dal cugino del Raso, Salvatore Addario”. E’ questo episodio dell’inchiesta a mostrare, da un lato, l’intervento dell’allora assessore per “proteggere gli interessi” del parente di un esponente della “locale”, ma – dall’altro – la forza espressa dal sodalizio, intervenuto attivando, “attraverso lo stesso Raso, gli opportuni contatti per ‘salvare Monica’”, oltre che “per ‘non perdere veramente tutto’”.

Processo Geenna: l’arrivo di Monica Carcea con i suoi legali

2 risposte

  1. Dovreste dare il giusto risalto alle assoluzioni, trattandosi di persone che hanno subito dei danni incalcolabili ed irreparabili sotto tutti gli aspetti. Dovreste scandalizzarvi che un cittadino – poi dichiarato innocente – abbia subito anni di restrizione della libertà personale. Quanto accaduto è inaccettabile. Non fa notizia per voi?

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